La scelta del trattamento

20 giugno 2008
Aggiornamenti e focus

La scelta del trattamento



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Quando l'aspettativa di vita era piuttosto bassa, e certo non paragonabile a quella attuale, probabilmente un tumore come quello della prostata non avrebbe suscitato grandi apprensioni. Visto che il principale fattore di rischio resta l'età, è abbastanza evidente che quando ci si attende di vivere 70 anni, un tumore che insorga prevalentemente attorno a quell'età può anche non destare eccessive preoccupazioni. Il discorso cambia se l'aspettativa di vita sale a 80. Perché in ogni caso si ha di fronte la prospettiva di vivere per anni con la malattia o di morire per la malattia stessa.
Questi ragionamenti sembrano sempre un po' cinici e astratti, ma hanno una loro ragione quando in effetti una malattia non ha un andamento prevedibile e, soprattutto, non esiste una terapia esente da effetti collaterali. In altre parole, l'oncologo può decidere facilmente quale sia la strada da scegliere soltanto in due casi: quando ha a che fare con un tumore piccolo, allo stadio iniziale, che può essere facilmente asportato. Questo caso si verifica soprattutto quando il paziente viene operato per un altro disturbo, l'ipertrofia prostatica, e il chirurgo scopre incidentalmente il tumore durante l'intervento. L'altro caso è quello opposto, cioè quando il tumore ha ormai invaso completamente l'organo e, quindi non è più operabile.

Una scelta a volte difficile


Le difficoltà sorgono nei casi intermedi, quando il tumore è operabile ma probabilmente con effetti collaterali non trascurabili, a cominciare dalla perdita dell'erezione. Ancora uno studio svedese pubblicato nel 2000 faceva presente che, sottoponendo a screening un gruppo di anziani (67 anni), effettivamente si aumentano le diagnosi precoci, ma soltanto uno su quattro degli uomini destinati a sviluppare il carcinoma della prostata sarebbe morto per quella ragione nell'arco dei successivi 15 anni (cioè a 82). Infatti si deve tenere presente che la progressione del tumore va da molto lenta a moderatamente rapida. Naturalmente queste considerazioni valgono quando si ha a che fare con pazienti anziani, non quando il tumore viene diagnosticato in un quarantenne oppure quando ci sono segni certi che la malattia progredisce rapidamente. Tuttavia, attualmente l'età media delle persone alle quali viene diagnosticato il tumore è pari a 72 anni.La sopravvivenza, d'altra parte, dipende direttamente dalle dimensioni del tumore alla diagnosi: quando è confinato entro la prostata (tumore intracapsulare) è comunque prevedibile una sopravvivenza superiore a 5 anni. Anche quando il tumore localizzato non è più operabile, comunque, la sopravvivenza in media arriva a 5 anni. La prognosi è meno fausta quando si hanno metastasi, perché la sopravvivenza scende a 1-3 anni. E solo in questo caso che la maggioranza dei pazienti muore proprio a causa del tumore e anche così non è possibile escludere che la sopravvivenza possa alla fine dimostrarsi ben superiore.

I fattori di rischio


A proposito delle possibili cause o situazioni che possono favorire lo sviluppo del carcinoma prostatico sono state avanzate diverse ipotesi. Cominciando dallo stile di vita, in passato veniva definito malattia del notaio, in parte a indicare il legame con una dieta molto (troppo) ricca oppure con i lunghi periodi trascorsi in posizione seduta. Si è anche prospettato che potesse nuocere l'eccessiva attività sessuale. In realtà non esistono dati incontrovertibili: per quanto riguarda l'attività sessuale, per esempio, è più probabile che chi ha un'attività sessuale più intensa della media abbia anche elevati livelli di ormoni androgeni , che a loro volta contribuiscono allo sviluppo del tumore. Anche la dieta ricca di grassi potrebbe essere un fattore di rilievo, ma solo perché è dai grassi che l'organismo sintetizza questi ormoni. Non stupisce quindi che alcune esperienze mostrino un minore rischio nei vegetariani. Più consistente l'ipotesi genetica, che renderebbe ragione di alcune osservazioni, per esempio la maggiore predisposizione degli afro-americani rispetto ai bianchi non ispanici e agli ispanici, anche tenendo conto (e quindi eliminandoli) degli effetti di circostanze come il livello economico, la storia clinica e altri. Fatto uno il rischio dei bianchi, quello degli afroamericani è pari a 2,26. Analogo discorso per la famigliarità. Se in famiglia ci sono stati altri casi di carcinoma prostatico, le possibilità di andare incontro alla malattia aumentano da due a quattro volte a seconda dello studio. Però devono essere proprio casi di cancro della prostata perché, contrariamente a quanto si è anche sostenuto, non pare che una famigliarità per altre forme tumorali abbia un ruolo.
Non è un caso, dunque, che il carcinoma della prostata sia stato definito il più misterioso dei tumori maschili: non fosse altro che per il fatto che non sempre una scelta interventista è la più adeguata.

Maurizio Imperiali



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