02 marzo 2015
Interviste
Più il farmaco costa, meglio funziona: ecco il placebo del portafogli
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Uno studio appena pubblicato dalla prestigiosa rivista Neurology ha dimostrato che lo stesso farmaco ha un effetto maggiore o minore se viene presentato ai malati come più o meno costoso. O meglio, ha dimostrato che le aspettative dei malati sono molto influenzate dal prezzo persino quando quello che ricevono non è un farmaco, ma una soluzione fisiologica composta da acqua e sali, priva di qualsiasi principio attivo. In altre parole, un placebo.
Dica33 ne ha parlato con Giampaolo Velo, già professore di farmacologia all'Università di Verona e direttore del Centro di Riferimento per l'educazione e la comunicazione nell'ambito del programma per il monitoraggio internazionale dei farmaci dell'Organizzazione mondiale della sanità.
Professor Velo, che cosa ha detto esattamente questa ricerca: è vero che l'idea di assumere un farmaco molto costoso basta a farci sentire meglio?
«Questo studio ha valutato su un piccolo gruppo di malati di Parkinson, dodici per l'esattezza, che cosa cambia quando si forniscono ai pazienti delle informazioni diverse sulla cura che stanno per ricevere. In particolare, ai partecipanti è stato detto che avrebbero ricevuto due formulazioni dello stesso farmaco, capace di potenziare la produzione di dopamina (il neurotrasmettitore che nei pazienti colpiti da Parkinson si trova in quantità insufficiente).
Si trattava di due formulazioni presentate come di analoga efficacia, ma con prezzo assai diverso: 100 dollari a dose in un caso, e 1.500 dollari a dose nell'altro.
È importante sottolineare che la differenza non si è limitata alle sensazioni soggettive dei malati, ma si è osservata anche nei test effettuati prima e dopo ogni somministrazione per valutare i sintomi motori. In entrambi i casi i miglioramenti sono stati inferiori a quelli ottenibili con il farmaco utilizzato normalmente dai pazienti (levodopa), ma tra chi aveva assunto il placebo presentato come più costoso i benefici si sono avvicinati in misura significativa a quelli del farmaco».
Come si spiega questa osservazione? Ha senso dire che l'acqua fresca cura il Parkinson?
«Ovviamente no. Semmai quello che gli studi sempre più rigorosi sull'effetto placebo stanno portando alla luce è il fatto che in molte situazioni cliniche esiste un'ampia area grigia in cui i miglioramenti osservati nei pazienti (o in una parte dei pazienti) sono attribuibili a numerosi fattori, di cui il principio attivo del farmaco è solo uno. Ci sono casi in cui il farmaco è molto efficace - ovvero è associato a notevoli miglioramenti misurabili, che si osservano nella maggior parte dei malati - e casi in cui lo è meno. E inoltre ci sono condizioni e malattie in cui una parte molto significativa di quel miglioramento è legata non tanto all'effetto diretto che una specifica sostanza chimica ha sull'organismo, ma a elementi che non è facile né individuare né quantificare».
È questo l'effetto placebo?
«Sì. In un certo senso, l'espressione "placebo" include tutto ciò che non conosciamo, ma di cui osserviamo un effetto in chi soffre (d'altra parte per gli effetti negativi, reazioni avverse incluse, si usa l'espressione "effetto nocebo"). Progressivamente, studiando nel dettaglio questo complesso meccanismo si stanno scoprendo numerosi fattori - tra cui il prezzo, ma anche per esempio forma e colore delle compresse, e la modalità di somministrazione per bocca o con supposte o iniezioni - che incidono sull'efficacia complessiva delle cure. Questo fenomeno ovviamente non riguarda solo i malati di Parkinson, ma questa malattia si presta particolarmente perché è caratterizzata da una riduzione dei livelli di dopamina nel cervello, ed è noto da tempo che l'effetto placebo ha la capacità di favorirne la produzione».
Ma quindi il placebo può essere usato come medicina per curare i malati? Non è una contraddizione?
«In un certo senso è una contraddizione, perché in origine il placebo è servito per "fare la tara", per così dire, ai farmaci: lo si è usato (e tuttora lo si usa) come confronto per distinguere quanta parte del beneficio osservato nei malati che prendono una medicina è legato alla sostanza chimica presente in essa e quanta parte all'atto curativo più in generale. È importante sottolineare che l'effetto placebo è dovuto al "contesto psicosociale" nel quale si trova il paziente sottoposto a terapia. In un certo senso, è servito inizialmente a "svelare un inganno", chiarendo quali farmaci erano davvero efficaci in virtù di uno specifico meccanismo d'azione biochimico, e quali erano intercambiabili con una assai meno costosa zolletta di zucchero. Basti pensare all'omeopatia. Poiché si è capito che in alcuni ambiti anche una zolletta di zucchero o la soluzione fisiologica - purché presentate come rimedio efficace da una figura credibile - possono far star meglio chi soffre, ci si è chiesti se non sia possibile usarle».
Si tratta quindi di usare un inganno a fin di bene?
«No, e proprio lì sta il nodo della questione: dal punto di vista etico non è pensabile raccontare frottole ai malati - se non nel contesto di una sperimentazione clinica circoscritta, ideata per comprendere questi meccanismi e presentata in modo dettagliato ai partecipanti sotto il controllo di un comitato etico, come nel caso dello studio di Neurology. D'altra parte sono già stati condotti alcuni studi che hanno dato risultati preliminari molto interessanti: nel contesto di una relazione franca e onesta con il medico curante, il malato - in quel caso affetto da sindrome del colon irritabile - migliora anche quando gli viene detto con chiarezza che la terapia somministrata non è altro che un placebo. Si tratta di risultati preliminari, come detto, ma molti gruppi di ricerca nel mondo stanno cercando di trovare anche grazie alla migliore conoscenza del placebo la soluzione per offrire ai malati le migliori opportunità terapeutiche, senza ingannarli e senza esporli a inutili rischi o sprechi di denaro».
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