Una faccia in prestito

28 settembre 2005
Aggiornamenti e focus

Una faccia in prestito



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Si rende conto che sarà, almeno per l'aspetto, una persona del tutto diversa? E' questa la domanda che i candidati al trapianto di faccia si sentiranno rivolgere dai medici prima dell'intervento. Già perché il trapianto di faccia non sembra essere più una prospettiva fantascientifica ma, almeno a giudicare dagli ultimi annunci, sempre più vicino. Possibile? La sfida è sicuramente ardua. Si tratta di un intervento che richiede 15 ore di lavoro, con diversi medici che si alternano in più sale operatorie. La faccia da impiantare viene rimossa da un cadavere con l'epidermide, i nervi e il grasso, per poi essere ricucita sui muscoli della persona che la riceve. Ma non finisce qui. Dopo l'intervento, i pazienti devono assumere medicine, probabilmente per molti anni, per indebolire il sistema immunitario e evitare il rigetto. Un trattamento farmacologico che può costare anche mille dollari al mese. Ma questo sarebbe il meno. Un'operazione di questo tipo apre, infatti, questioni enormi: da quelle fisiche, come il rischio di rigetto e l'abbassamento delle difese immunitarie, a quelle morali. Il viso, infatti, come ha detto il presidente del Comitato nazionale di bioetica Francesco D'Agostino, rappresenta nel modo più forte e inequivocabile l'identità di una persona: intervenirvi con una tecnica di sostituzione è una forma di attentato all'unicità della persona. Di questi aspetti in particolare si è occupato un servizio della Bbc.

I tempi sono ancora lunghi


Ci sono voluti quattro anni per Denis Chatelier, il primo paziente con entrambe le mani trapiantate, per accettare queste "appendici" estranee. E' successo, come dichiarato dallo stesso paziente, quando per la prima volta ha smesso di chiamarle "le mani" per iniziare a chiamarle "le mie mani". E se succede così per le mani si può solo immaginare che cosa possa rappresentare un trapianto di faccia dal punto di vista psicologico. Le questioni in gioco sono decisamente più delicate e il passaggio da fare sarebbe quello di guardarsi allo specchio e dire "sono io". Con un'altra faccia però. Il problema è che la questione non è più solo scritta sui copioni dei film di fantascienza ma sembra ormai di imminente realizzazione, in particolare da quando la Cleveland Clinic statunitense ha non solo approvato la tecnica pioneristica, ma anche iniziato le selezioni tra cinque uomini e sette donne per sottoporsi a un trapianto di faccia. Le questioni psicologiche che entrano in gioco in occasione di un qualsiasi trapianto sono sempre molte: dalle paure sull'effettiva efficienza o sull'eventuale inefficienza del nuovo organo ai dubbi sui farmaci da prendere dopo, dalle preoccupazioni sull'effetto del trapianto rispetto alla propria immagine ai sentimenti di colpa o di gratitudine verso la famiglia del donatore. Un trapianto di faccia amplifica enormemente le questioni giù esistenti. E paradossalmente i soggetti più delicati sembrerebbero quelli più infelici rispetto alla propria immagine danneggiata e quindi più desiderosi di una nuova faccia. E se l'intervento andasse male? Come possono persone già così vulnerabili accettarlo? Ecco perché il primo aspetto da tenere in gran considerazione prima di un eventuale intervento del genere è proprio l'accurata selezione dei candidati. I "supporter" dell'intervento sostengono che potrebbe essere sufficiente un lavoro di counselling post-intervento simile a quello messo in atto dopo l'incidente che ha sfigurato il volto. Ma esistono anche questioni molto delicate legate all'identità rispetto a quella del paziente donatore. Secondo un esperto, consultato dal network britannico, occorreranno almeno dieci anni ancora di ricerca prima di riuscire ad appianare soltanto le questioni emotive. Ecco perché bisogna evitare a tutti i costi la corsa a essere i primi che eseguono il trapianto. Per risolvere adeguatamente tutte le questioni in gioco la strada potrebbe essere ancora molto lunga.

Marco Malagutti



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