28 novembre 2007
Aggiornamenti e focus
Anche in vena insidia il cervello
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Dicendo trombosi in genere si pensa a quella arteriosa, principale causa di coronaropatie, ictus e ischemia dell'arto inferiore. Temibile come causa di tromboembolia, però, è anche quella venosa, con trombi costituiti soprattutto da globuli rossi e fibrina, al posto che, principalmente, da piastrine come nel primo caso. Due malattie considerate finora distinte per fattori di rischio, patogenesi e quindi trattamenti: invece ora si evidenzia una loro connessione, nel senso che la tromboembolia venosa si lega a un rischio aumentato di eventi cerebro e cardiovascolari. Lo dimostra uno studio di popolazione danese con un periodo d'osservazione ventennale, che estende e rafforza le evidenze precedenti di un'associazione tra tromboembolia venosa e rischio di tromboembolia arteriosa, a sua volta precipitante un infarto miocardico o un ictus. La trombosi venosa non causerebbe direttamente tali eventi, piuttosto ci sarebbe una condivisione di fattori di rischio con quella arteriosa. E questo può avere ovviamente implicazioni rilevanti per la prevenzione prima, per la terapia poi.
La ricerca è stata ampia e ha analizzato dati di un registro nazionale danese di pazienti dimessi dagli ospedali: si è valutato il rischio di infarto miocardico e di ictus in 25.199 malati con trombosi venosa profonda e in 16.925 con embolia polmonare, in confronto con 163.566 controlli (in tutti i casi soggetti di almeno 40 anni d'età). Questo dopo avere escluso individui con patologie quali ipertensione, cardiopatia cronica o vasculopatia cerebrale. Il risultato finale è stato per i malati di trombosi venosa profonda, nel primo anno dopo la diagnosi, un aumento a 1,60 (cioè il 60%) del rischio relativo di infarto e a 2,19 di quello di ictus, probabilità sostanzialmente più marcata per i pazienti con embolia polmonare, nei quali saliva rispettivamente a 2,60 e 2,93. Nell'arco dei successivi vent'anni il rischio relativo rimaneva comunque più elevato che nei controlli, anche se meno marcatamente, con un aumento a 1,2-1,4 cioè del 20-40% della probabilità di eventi cardiovascolari. Sono riscontri che si accordano con altri precedenti di una maggiore prevalenza sia di eventi cardiovascolari sia, per esempio, di placche carotidee asintomatiche o di calcificazioni coronariche in malati di trombosi venosa; contrastano invece per quanto riguarda l'incremento di rischio in presenza o in assenza di fattori predisponenti la tromboembolia venosa, come tumori, gravidanza, traumi, interventi chirurgici. La maggiore probabilità nel primo anno rispetto a quelli successivi, potrebbe sembrare strana dato che dovrebbe esserci l'effetto protettivo della terapia, ma, spiega l'editoriale, potrebbe ricondursi a un aumento di ictus emorragico legato agli anticoagulanti, o un'ipercoagulabilità riflessa oppure provocata da fattori quali infezioni acute.
I meccanismi dell'associazione marcata tra tromboembolia venosa e infarto e ictus sono da chiarire, affermano gli autori. Ci sono fattori protrombotici comuni quali trombogenesi, danno endoteliale, infiammazione, attivazione piastrinica e della coagulazione, ma ci sono anche differenze nell'eziologia che complicano le cose. La chiave sarebbe invece nella condivisione di fattori di rischio maggiori, come l'obesità. Oltre a questo, per fumo, ipertensione e diabete c'erano indizi poco consistenti; in una recente review, rileva però l'editoriale, sono risultati significativamente associati con il rischio di tromboembolia venosa. E' vero che nello studio danese l'ipertensione era un criterio d'esclusione, ma un profilo di obesità, fumo e diabete potrebbe spiegare gran parte del rischio aumentato di eventi trombotici arteriosi riscontrato nei soggetti con tromboembolia venosa. Potrebbe contribuire poi una tendenza protrombotica condivisa, per fattori genetici (come protrombina mutata) o marker circolanti di attivazione della coagulazione (quali D-dimeri di fibrina).
Posto che bisogna chiarire cause ed entità dell'associazione individuata, quali implicazioni cliniche ne derivano? L'opportunità di una valutazione del rischio d'infarto e di ictus dai 40 anni in poi, ricordando che è in questa fascia la maggior parte dei soggetti con episodi di tromboembolia venosa; la sensibilizzazione a uno stile di vita con minimi fattori di rischio maggiori; l'eventuale profilassi con farmaci che riducono il rischio cerebro e cardiovascolare. Che siano arterie o vene, cervello o cuore, la prevenzione in fondo è la stessa.
Elettra Vecchia
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Evidenza maggiore nel primo anno
La ricerca è stata ampia e ha analizzato dati di un registro nazionale danese di pazienti dimessi dagli ospedali: si è valutato il rischio di infarto miocardico e di ictus in 25.199 malati con trombosi venosa profonda e in 16.925 con embolia polmonare, in confronto con 163.566 controlli (in tutti i casi soggetti di almeno 40 anni d'età). Questo dopo avere escluso individui con patologie quali ipertensione, cardiopatia cronica o vasculopatia cerebrale. Il risultato finale è stato per i malati di trombosi venosa profonda, nel primo anno dopo la diagnosi, un aumento a 1,60 (cioè il 60%) del rischio relativo di infarto e a 2,19 di quello di ictus, probabilità sostanzialmente più marcata per i pazienti con embolia polmonare, nei quali saliva rispettivamente a 2,60 e 2,93. Nell'arco dei successivi vent'anni il rischio relativo rimaneva comunque più elevato che nei controlli, anche se meno marcatamente, con un aumento a 1,2-1,4 cioè del 20-40% della probabilità di eventi cardiovascolari. Sono riscontri che si accordano con altri precedenti di una maggiore prevalenza sia di eventi cardiovascolari sia, per esempio, di placche carotidee asintomatiche o di calcificazioni coronariche in malati di trombosi venosa; contrastano invece per quanto riguarda l'incremento di rischio in presenza o in assenza di fattori predisponenti la tromboembolia venosa, come tumori, gravidanza, traumi, interventi chirurgici. La maggiore probabilità nel primo anno rispetto a quelli successivi, potrebbe sembrare strana dato che dovrebbe esserci l'effetto protettivo della terapia, ma, spiega l'editoriale, potrebbe ricondursi a un aumento di ictus emorragico legato agli anticoagulanti, o un'ipercoagulabilità riflessa oppure provocata da fattori quali infezioni acute.
Fattori predisponenti condivisi
I meccanismi dell'associazione marcata tra tromboembolia venosa e infarto e ictus sono da chiarire, affermano gli autori. Ci sono fattori protrombotici comuni quali trombogenesi, danno endoteliale, infiammazione, attivazione piastrinica e della coagulazione, ma ci sono anche differenze nell'eziologia che complicano le cose. La chiave sarebbe invece nella condivisione di fattori di rischio maggiori, come l'obesità. Oltre a questo, per fumo, ipertensione e diabete c'erano indizi poco consistenti; in una recente review, rileva però l'editoriale, sono risultati significativamente associati con il rischio di tromboembolia venosa. E' vero che nello studio danese l'ipertensione era un criterio d'esclusione, ma un profilo di obesità, fumo e diabete potrebbe spiegare gran parte del rischio aumentato di eventi trombotici arteriosi riscontrato nei soggetti con tromboembolia venosa. Potrebbe contribuire poi una tendenza protrombotica condivisa, per fattori genetici (come protrombina mutata) o marker circolanti di attivazione della coagulazione (quali D-dimeri di fibrina).
Posto che bisogna chiarire cause ed entità dell'associazione individuata, quali implicazioni cliniche ne derivano? L'opportunità di una valutazione del rischio d'infarto e di ictus dai 40 anni in poi, ricordando che è in questa fascia la maggior parte dei soggetti con episodi di tromboembolia venosa; la sensibilizzazione a uno stile di vita con minimi fattori di rischio maggiori; l'eventuale profilassi con farmaci che riducono il rischio cerebro e cardiovascolare. Che siano arterie o vene, cervello o cuore, la prevenzione in fondo è la stessa.
Elettra Vecchia
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