Storie di lockdown in farmacia - Il commento di Andrea Braguti

13 giugno 2020
Aggiornamenti e focus

Storie di lockdown in farmacia - Il commento di Andrea Braguti



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Ho riletto alcuni appunti che ho scritto a inizio aprile per alleggerirmi il cuore, quando il lockdown era ancora qualcosa di molto impegnativo, anche per noi farmacisti. Sempre a disposizione della popolazione, anche senza dispositivi, sempre sul campo di battaglia fin dall'inizio con il nostro triste tributo di colleghi morti in trincea. Perché, per chi come me la guerra non l'ha vista, questa pandemia è stata la cosa che più le si è avvicinata in questi ultimi sessant'anni.

Ora che la situazione è decisamente più tranquilla queste parole buttate giù di istinto paiono ridondanti, ma in quei giorni la paura ci ha segnato in modo indelebile e non la potremo dimenticare. Eccone uno stralcio.

La saracinesca arriva a fine corsa, il silenzio torna a rimbombare e i ragazzi se ne vanno. Resto solo. Comincia il triste rito della sanificazione e della svestizione... bisogna fare attenzione e rispettare la sequenza, altrimenti si ricomincia... I polpastrelli delle dita sono ridotti come quando al mare mia mamma mi chiamava perché era da troppo tempo che stavo in acqua... La pelle è ormai disidratata e arrossata e mentre mi insapono mi sento come un medico legale dopo un'autopsia... seguo le istruzioni per un buon lavaggio, torno a sentire le mani finora avvolte nei guanti. L'unico contatto umano che ci è concesso è quello con noi stessi. Ripenso ai contatti della giornata e a quanti "no" abbiamo dovuto dire per mascherine, ossigeno, saturimetri.

Fortunatamente ogni tanto riusciamo a dire anche qualche "sì" e allora ti capita di sentire all'altro capo del filo la voce commossa di una cliente che ti ringrazia per essere riuscito a trovare una bombola di ossigeno per il papà anziano in difficoltà e rimani senza parole, perché ti sembra di aver fatto solo il tuo dovere. Rivivo le telefonate dei colleghi nel panico perché temono che il virus possa essere penetrato nelle loro difese, non adeguate ad arginare il contagio esponenziale. Una parola di incoraggiamento la offro a tutti, ma quando termino la telefonata gli occhi mi si inumidiscono.

Ogni persona che gestisca un numero di contatti così elevati, alcuni dei quali palesemente collegati al problema virale, è sottoposto a un elevato rischio di contrarlo. Speri sempre di essere stato sufficientemente prudente e attento, ma nessuno può essere ancora certo di nulla: ti svegli la mattina e ringrazi la vita di poter affrontare anche per oggi il dramma dalla parte di chi cerca di essere utile. (Il sistema non era pronto ma, come ripeto spesso, non avrebbe comunque potuto esserlo: impatti e numeri assolutamente imprevedibili per qualunque situazione di emergenza si sarebbe mai potuta immaginare. I dati Istat del primo quadrimestre di quest'anno lo confermano). Mentre mi asciugo controllo il respiro e la mobilità del collo: sembra tutto a posto, anche per oggi dovrei essere negativo... Forse... Spengo le luci dietro di me con un pezzo di carta inzuppato di alcool che ha già sanitizzato cellulare e occhiali e poi sono in strada... Al buio c'è solo il rumore del nulla, la luce triste dei lampioni e il suono dei miei passi sulla strada.

Quando, raramente, intravedo un altro essere umano in lontananza, normalmente cambiamo marciapiede per non incrociarci. Ora che il peggio è passato torniamo a incrociarci con piacere sui marciapiedi, cominciando a riconoscerci "sopra" le mascherine e, anche se la mano non possiamo ancora stringercela, il nostro cuore torna a cercare la speranza che ci porterà al nostro "dopoguerra". Ora chiedere «Come sta?» alla persona che incroci significa sperare in una risposta diversa da quella che una volta potesse significare e la rivolgo sempre con un certo timore. Ma quando spesso la risposta è «Tutto bene, grazie» mi sento sollevato e meno cupo per quello che ci aspetta.




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