Inchiesta: le palestre low cost

09 giugno 2015
Aggiornamenti e focus

Inchiesta: le palestre "low cost"



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Tutto è cominciato per aria. Nel senso che l'intuizione è nata studiando il fenomeno dei voli low cost. Anni fa, in America, gli analisti economici hanno capito che le tratte aeree a basso costo avrebbero rivoluzionato il sistema di distribuzione dei servizi, in molti comparti merceologici. È nata così la catena Anytime Fitness, la prima palestra al mondo a credere nel concetto di un servizio ridotto all'essenziale a fronte di un prezzo più basso. Insomma, un centro che proponesse solo un'offerta base: un Basic Club appunto, che poi è il nome ufficiale (insieme a Budget Club) delle palestre low cost. Negli anni il fenomeno è esploso. Anytime Fitness oggi conta circa duemila club negli USA e circa 500 centri in giro per il mondo; ed è solo una catena delle tante. La ricetta è presto detta: struttura societaria agile, tipologia di investimenti mirati e abbattimento dei costi fissi, con pochissimo personale e contratti di affitto concordati. Tutto è tarato in modo da essere sostenibile con una cifra popolare, da arrotondare facendo pagare tutto ciò che esce dall'offerta base.

Una rivoluzione della distribuzione

Il successo che questa formula sta riscontrando è dovuto in parte alla crisi economica in atto, che obbliga il consumatore a una scelta oculata delle spese. «Ma soprattutto è dovuto al frazionamento dei segmenti di mercato, che si è avuto con l'evoluzione dei mercati stessi», spiega Gianluca Scazzosi, European Council Member di IHRSA, The International Health, Racquet & Sportsclub Association, un'associazione che rappresenta a livello mondiale i club di fitness e wellness, palestre, Spa, centri sortivi e produttori e fornitori di servizi. «Basta vedere cosa è successo negli ultimi 6/8 anni con i voli di corto/medio raggio, che forse rappresentano l'esempio più eclatante del modello low cost: voli 'no frills', senza fronzoli, a cifre estremamente abbordabili. Il concetto di low cost nel fitness è molto simile, e non a caso in Inghilterra il Gruppo EasyJet sta aprendo la sua catena di palestre EasyGym (al momento sono attivi già cinque Club) » prosegue. Per fare un altro esempio, basta guardare cos'è successo negli ultimi dieci anni nel comparto della distribuzione alimentare con la media superficie dei discount. C'è pertanto in atto proprio una rivoluzione generale della distribuzione in senso lato; per cui va da sé che anche nel mercato del fitness si sia arrivati a questo punto.

Due metodi differenti

La formula dei Basic Club si è diffusa rapidamente in tutto il mondo, con due concezioni differenti. Negli Stati Uniti c'è un fenomeno low cost ampio e ben segmentato; ma i modelli europei (Germania, Olanda e Inghilterra) sono più vicini ai trend che noi stiamo vedendo in Italia in questo momento. «Sul mercato americano, infatti, l'80 per cento dell'offerta a basso prezzo è presidiato da catene che si sviluppano con la formula del franchising», riprende Scazzosi. «Invece sul mercato nord europeo (e, in parte, è anche quanto sta succedendo in Italia) la diffusione dei Basic Club avviene principalmente nella forma tipica delle location di proprietà: c'è un'azienda sola che apre un Centro, poi un altro, poi il terzo e così via».

Prezzo basso, alta qualità

Low cost ha un significato ben preciso nel posizionamento sul mercato: significa un centro fitness di medie dimensioni (indicativamente tra i 1200 e i 1600 mq) che offre, nel costo dell'abbonamento, il solo servizio base. Tutto è ridotto all'essenziale (soprattutto la presenza di personale), senza però intaccare la qualità. Sovente non c'è reception - per l'ingresso è sufficiente un tornello - e si accede direttamente alla sala pesi, sempre molto ben arredata con macchine e attrezzature di ultima generazione, rigorosamente disposte in funzione della superficie disponibile, che è sfruttata fino all'ultimo centimetro quadrato. «La ragione è meramente di ottimizzazione economica», sottolinea Gianluca Scazzosi. «Con la cifra (media) di 20/25 euro al mese, per fare margine si devono avere almeno 4mila iscritti. I quali, poi, hanno a disposizione, se lo vogliono, molti altri servizi a pagamento con cui integrare l'offerta base: doccia, bevande, trainer, programma di lavoro personalizzato, pedana vibrante, corsi di gruppo... tutto è offerto a pagamento, e a fine mese si può arrivare a spendere 30/35 euro, invece dei 20 iniziali: il sistema commerciale del low cost funziona in questo modo, con le dovute differenze - poi - a seconda di come sia impostato il business model della catena».

Attenzione alle clausole

Low cost pertanto non significa (sempre) locali fatiscenti o attrezzature superate: la qualità è curata, proprio per concorrere (insieme a eventuali promozioni) a invogliare gli abbonamenti, che devono per forza essere molti. Anche i contratti di iscrizione sono chiari, perché oggi i consumatori sono comunque attenti e provare a raggirarli con clausole ambigue non porta lontano ed è molto controproducente già sul breve periodo. «È tutto molto chiaro e non ci sono sorprese. A patto di leggere bene le condizione contrattuali, dove tutto è dettagliato in modo visibile e comprensibile», raccomanda Scazzosi. «Infatti esistono modelli contrattuali particolari, che magari prevedono il rinnovo automatico in mancanza di una disdetta scritta e i pagamenti RID senza scadenza. È il fenomeno dello "Sleeping Money", che si ha quando una persona non frequenta più la palestra ma continua a pagare l'abbonamento senza rendersene conto: i 20 euro mensili passano inosservati, l'estratto conto della banca non lo si guarda mai e questa disattenzione può arrivare a rappresentare anche l'8/10 per cento dei ricavi di questo modello di business. È una marginalità ridotta, ovviamente. Però nell'arco dell'anno il revolving di questi ricavi qualcosina dà. Tuttavia è il consumatore in torto: lui è stato informato dal Club, nel suo contratto è scritto. Solo che non si è mai preoccupato di leggerlo».

Un nuovo mercato

L'avvento del low cost in Italia ha prodotto due conseguenze contrastanti: da una parte ha destabilizzato il mercato, dall'altra lo ha decisamente ampliato, coinvolgendo una nuova utenza che altrimenti non sarebbe mai andata in palestra. Siamo pertanto di fronte a uno scenario diverso e nuovo. «In effetti le palestre low cost hanno sicuramente coinvolto una parte di consumatori che prima non si avvicinava al mercato del fitness», conferma Gianluca Scazzosi. «La ragione è molto semplice: il rischio di sprecare denaro è basso perché il prezzo è basso. Si è consci del fatto che, al limite, si buttano via solo 20 euro al mese, duecento in un anno. Cifre abbordabili per una fascia di popolazione con un potere d'acquisto medio/basso, che rappresenta il grosso dell'utenza nelle palestre low cost». È stata quindi coinvolta una larga fetta di popolazione che se ne stava alla larga dai centri fitness proprio per la barriera del prezzo di ingresso. D'altra parte l'arrivo del prezzo basso ha destabilizzato molto alcune zone geografiche del mercato. «L'offerta di base dei centri low cost è assolutamente compatibile con il prezzo: a fronte di 20 euro, si ha a disposizione una quantità enorme di attrezzature nuove con cui potersi allenare. Un frequentatore abituale che si alleni 8/10/12 volte al mese, spende poco più di un euro a ingresso. Il successo del posizionamento basic è che si paga ciò che davvero si usa. Invece nelle grandi catene, a fronte dei 50/80 euro mensili (con un posizionamento quindi assolutamente differente), l'utente consuma solo una parte (e, di solito, piccola) di quello che ha comprato».

La reazione dei "full service"

In questo nuovo scenario, i Club "full service" hanno a disposizione tre strade per contrastare un competitor tanto aggressivo. Anzitutto, possono abbassare i prezzi (come in effetti è successo in diversi casi) ; ma è una soluzione limitata, in quanto non sono in grado di scendere più di tanto, poiché hanno comunque costi fissi da sostenere che il low cost non ha. Si può, allora, cercare di portare via utenza ai Budget Club, offrendo un utilizzo vincolato del centro a fronte di un prezzo inferiore. Oppure, al contrario, si può fare una precisa scelta di mercato, mantenendo le tariffe ordinarie per selezionare l'utenza. «Tutto dipende dal posizionamento che la proprietà decide di avere: si può mantenere un prezzo rilevante, con cui l'utente compra tutto, indipendentemente da quello che poi andrà davvero a usare. L'altra strategia è proprio quella di far pagare solo ciò che si consuma, mettendo barriere all'ingresso e barriere all'interno (bastano dei tornelli) . Questo è quanto dovrebbero fare quei club che non riescono più a sostenere quel prezzo che prima permetteva loro di fare margine. Se il prezzo pieno non è più sostenibile perché il consumatore non lo compra più, allora devono frazionare i servizi».

Palestra a misura d'uomo

Il discorso cambia radicalmente quando si tratta dei centri più piccoli, quelli dei trainer "di buona volontà" che, dopo una vita di lavoro, sono finalmente riusciti ad aprirsi il proprio club. «Riconvertirsi al low cost per sopravvivere non è la strategia migliore», ammonisce Scazzosi. «Se lo fanno solo perché non vedono alternative o per paura, rischiano di autocannibalizzarsi nell'arco di un paio d'anno. Non basta abbassare il costo dell'abbonamento per avere più ricavi, perché sono necessarie molte più tessere per ottenere lo stesso ricavo finale. E le palestre piccole - quelle gestite da una o due persone - non sempre sono in grado di far fronte a numeri pesanti di utenza, offrendo per di più in un orario molto dilatato. Al contrario, questo tipo di Club può fare la differenza nel rapporto personale con i propri clienti. Una cosa è avere 5mila clienti, altra è averne 7/800. Se si lavora bene, li si conosce tutti uno per uno. E c'è una fetta di clientela che è disposta a spendere qualche euro in più pur di avere un rapporto personale e immediato con il titolare o con il trainer. Una palestra a misura d'uomo. L'empatia è un dato di fatto dei mercati dei servizi e la palestra non fa eccezione. Se tu sei parte di una multinazionale, sei un impiegato del fitness; se, invece sei un "artigiano" e la bottega è tua, la differenza dell'immagine che trasmetti in sala è percepibile e il consumatore la coglie».

Alto tasso di abbandoni

Questo è anche uno dei motivi per cui i centri low cost non riescono a lavorare sulla fidelizzazione del cliente. È un dato di fatto che il tasso di fedeltà è molto più basso rispetto a quello delle palestre normali in cui cliente e istruttore hanno un rapporto personale di stima e conoscenza. «Nelle low cost, in generale, il turn over è molto elevato, al punto che non si arriva - secondo i dati IHRSA - a più del 30/35 per cento di fidelizzazione, a fronte del 50/55 che si può fare nelle palestre normali». Va detto che, in Italia, su base annua è effettivamente difficile riuscire tenersi più della metà dei clienti dell'anno precedente e questo è un dato strutturale perverso di penetrazione di mercato tipico del nostro Paese. «In Italia l'80 per cento di chi non rinnova un abbonamento non lo fa perché cambia centro fitness; ma perché smette, perché esce dal mercato. È vero: ci sono consumatori abituali che cambiano fornitore, come succede in tutti i comparti merceologici. Ma si tratta di un'esigua minoranza. La maggior parte abbandona. In Italia chi frequenta un Club come abitudine è meno del 10 per cento della popolazione complessiva, a fronte - sempre secondo i dati IHRSA - di qualche punto in più in Spagna, del 12/13 per cento in Germania, del 15 in Inghilterra, e addirittura del 18 in Olanda». A prima vista sembrerebbero - soprattutto le prime cifre - valori abbastanza allineati. Invece, 3/4 punti di percentuale in più di popolazione attiva nei centri fitness, significa milioni di euro. Una riflessione sulla nostra sedentarietà (sui suoi costi sociali e sui mancati introiti) sarebbe d'obbligo.

Alberto Zampetti



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