31 ottobre 2003
Aggiornamenti e focus
Dialisi a volte accanita
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Il signor AG è affetto da insufficienza renale cronica in fase terminale, ha iniziato il trattamento di emodialisi nel 2000, ha 69 anni, ha un quadro clinico buono e si reca al centro specializzato con la propria auto. Prima di entrare in dialisi aveva avuto due infarti e dopo tre anni viene ricoverato per un nuovo episodio. Durante il ricovero informa i medici che non vuole più essere sottoposto a trattamenti terapeutici inclusa la dialisi, ma di voler solo cure che controllino il dolore e altri eventuali sintomi come il vomito. Dopo 10 giorni i signor AG muore dopo un giorno in stato di incoscienza.
Il caso clinico del signor AG è stato presentato alla platea di medici e infermieri che hanno partecipato al convegno "Cure di fine vita: un problema non solo oncologico" tenutosi a Milano, durante il quale è stato affrontato, tra le altre cose, il recente fenomeno dell'abbandono della dialisi. Recente perché, se la dialisi è sempre stata la scelta di elezione per questi pazienti e unica strategia salva-vita percorribile, negli anni '80 iniziano i primi abbandoni della terapia che aumentano negli anni '90 quando si diffonde il concetto di vivere con dignità la condizione di malato terminale.
L'emodialisi è un trattamento molto diffuso, sono almeno un milione i pazienti che ne fanno uso, e il numero cresce continuamente. Stanno cambiando anche le caratteristiche cliniche dei dializzati, per esempio, le classi di età più avanzata sono in aumento. Il fenomeno è dovuto alla maggiore longevità della popolazione e alle migliori terapie disponibili per malattie a causa delle quali si moriva prima di arrivare alla dialisi. Aumentando l'età media diventano sempre più complesse le condizioni cliniche e le patologie che accompagnano l'insufficienza renale: diabete, neoplasie, malattie cardiovascolari; spesso si tratta di malattie sistemiche che rendono il paziente anziano "più malato".
Quadri clinici complessi compromettono l'efficacia del trattamento: la mortalità tra i dializzati varia dal 15 al 25%, vi è un'ospedalizzazione sempre più frequente, negli Stati Uniti è stimata di 14 giorni all'anno per paziente; infine, la qualità della vita è molto inferiore rispetto alla popolazione sana e paragonabile a quella di malati con patologie tumorali o cardiovascolari gravi.
In questo scenario, medici, pazienti e familiari hanno iniziato a domandarsi se l'emodialisi in certi casi diventi più un accanimento terapeutico anziché un salva-vita, in quanto non offre un reale vantaggio in termini di quantità e qualità di vita. Dubbi che si sono amplificati con la diffusione del concetto di autonomia del malato e di consenso informato che hanno permesso o obbligato a ripensare il ruolo del trattamento terapeutico e dei bisogni reali del malato e di chi lo accudisce quotidianamente. Chiaramente la decisione di rifiutare o abbandonare la dialisi (o altre terapie) non è semplice, soprattutto quando comporta conseguenze fatali come in questo casi: il paziente che non inizia la dialisi può sopravvivere per pochi mesi, con la sospensione la sopravvivenza si riduce a una o qualche settimana.
Una linea comune
Dal 2000 negli Stati Uniti esistono indicazioni ufficiali su come affrontare le decisioni drastiche dei pazienti che non vogliono entrare in dialisi o vogliono sospenderla. E' importante che in ogni caso il paziente (o i familiari, se non è cosciente) condivida la scelta, è necessario che ci sia un consenso informato sottoscritto e se ci sono delle direttive anticipate lasciate dal malato devono essere rispettate. Quando la decisione è definitiva bisogna assicurare cure palliative adeguate per il controllo dei sintomi, in ospedale, a domicilio o in hospice. In Italia la percezione del problema è ancora viziata da condizionamenti culturali, spesso vige ancora un rapporto unilaterale e sbilanciato tra paziente e personale sanitario, che crea un affidamento fiducioso alle cure a scapito delle reali necessità del paziente che rimangono inascoltate. A volte è addirittura il paziente stesso che non riesce a considerare serenamente la sua situazione.
Simona Zazzetta
Salute oggi:
...e inoltre su Dica33:
Il caso clinico del signor AG è stato presentato alla platea di medici e infermieri che hanno partecipato al convegno "Cure di fine vita: un problema non solo oncologico" tenutosi a Milano, durante il quale è stato affrontato, tra le altre cose, il recente fenomeno dell'abbandono della dialisi. Recente perché, se la dialisi è sempre stata la scelta di elezione per questi pazienti e unica strategia salva-vita percorribile, negli anni '80 iniziano i primi abbandoni della terapia che aumentano negli anni '90 quando si diffonde il concetto di vivere con dignità la condizione di malato terminale.
Pazienti insoddisfatti
L'emodialisi è un trattamento molto diffuso, sono almeno un milione i pazienti che ne fanno uso, e il numero cresce continuamente. Stanno cambiando anche le caratteristiche cliniche dei dializzati, per esempio, le classi di età più avanzata sono in aumento. Il fenomeno è dovuto alla maggiore longevità della popolazione e alle migliori terapie disponibili per malattie a causa delle quali si moriva prima di arrivare alla dialisi. Aumentando l'età media diventano sempre più complesse le condizioni cliniche e le patologie che accompagnano l'insufficienza renale: diabete, neoplasie, malattie cardiovascolari; spesso si tratta di malattie sistemiche che rendono il paziente anziano "più malato".
Quadri clinici complessi compromettono l'efficacia del trattamento: la mortalità tra i dializzati varia dal 15 al 25%, vi è un'ospedalizzazione sempre più frequente, negli Stati Uniti è stimata di 14 giorni all'anno per paziente; infine, la qualità della vita è molto inferiore rispetto alla popolazione sana e paragonabile a quella di malati con patologie tumorali o cardiovascolari gravi.
Una decisione difficile
In questo scenario, medici, pazienti e familiari hanno iniziato a domandarsi se l'emodialisi in certi casi diventi più un accanimento terapeutico anziché un salva-vita, in quanto non offre un reale vantaggio in termini di quantità e qualità di vita. Dubbi che si sono amplificati con la diffusione del concetto di autonomia del malato e di consenso informato che hanno permesso o obbligato a ripensare il ruolo del trattamento terapeutico e dei bisogni reali del malato e di chi lo accudisce quotidianamente. Chiaramente la decisione di rifiutare o abbandonare la dialisi (o altre terapie) non è semplice, soprattutto quando comporta conseguenze fatali come in questo casi: il paziente che non inizia la dialisi può sopravvivere per pochi mesi, con la sospensione la sopravvivenza si riduce a una o qualche settimana.
Una linea comune
Dal 2000 negli Stati Uniti esistono indicazioni ufficiali su come affrontare le decisioni drastiche dei pazienti che non vogliono entrare in dialisi o vogliono sospenderla. E' importante che in ogni caso il paziente (o i familiari, se non è cosciente) condivida la scelta, è necessario che ci sia un consenso informato sottoscritto e se ci sono delle direttive anticipate lasciate dal malato devono essere rispettate. Quando la decisione è definitiva bisogna assicurare cure palliative adeguate per il controllo dei sintomi, in ospedale, a domicilio o in hospice. In Italia la percezione del problema è ancora viziata da condizionamenti culturali, spesso vige ancora un rapporto unilaterale e sbilanciato tra paziente e personale sanitario, che crea un affidamento fiducioso alle cure a scapito delle reali necessità del paziente che rimangono inascoltate. A volte è addirittura il paziente stesso che non riesce a considerare serenamente la sua situazione.
Simona Zazzetta
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