04 maggio 2005
Aggiornamenti e focus
Lo spot si addice all'antidepressivo?
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Come ormai dovrebbero sapere anche i muri, in Europa non è possibile fare pubblicità presso il pubblico a farmaci soggetti a prescrizione; anche la proposta di permetterla, fatta in sede europea qualche tempo fa, è stata alla fine bocciata. Negli Stati Uniti non è così, quindi antibiotici, antiulcera e psicofarmaci, per fare esempi a casaccio, sono oggetto di pagine pubblicitarie e di spot. Anche negli Stati Uniti vi sono i contrari, che ritengono la pubblicità rivolta al consumatore un elemento di potenziale confusione e soprattutto una spinta verso prescrizioni scorrette o inutili. Al contrario, i sostenitori di questa pratica ritengono che possa essere utile per creare consapevolezza su certe malattie che sfuggono a diagnosi e trattamenti adeguati. Per portare un elemento di chiarezza, almeno nel campo degli psicofarmaci e in particolare degli antidepressivi, è stato condotto uno studio singolare. Alla base di tutto, i "pazienti standard", cioè attori che sono stati preparati per sostenere la parte del paziente affetto da depressione maggiore oppure affetto da disturbo dell'adattamento con umore depresso, una condizione un po' sfuggente dove coesistono insonnia, astenia e limitati segni di difficoltà cognitive, sociali e altre.
Questi pazienti finti sono stati inviati a un campione di medici di famiglia (sia generalisti sia internisti) di tre diverse città. A questo punto, recitando la loro parte, potevano: chiedere esplicitamente una marca di antidepressivo (la paroxetina), che all'epoca dello studio era al centro di una grande campagna pubblicitaria; chiedere genericamente che gli venisse prescritto un antidepressivo, senza fare nomi, oppure non chiedere nulla. Per inciso, questi pazienti standard erano piuttosto bravi: solo il 13% dei medici ha sospettato "il trucco", anche se ovviamente il risultato sarebbe stato diverso di fronte a uno psichiatra. I ricercatori volevano stabilire se la richiesta aumentava la prescrizione e, poi, se aumentava anche la probabilità di ricevere cure, al di là del farmaco, adeguate: per esempio il rinvio a uno specialista o la richiesta di ripresentarsi per un controllo.
I risultati ci sono stati, e l'interpretazione non è dubbia. Nel caso della depressione maggiore, la visita si è conclusa con una prescrizione nel 54% dei casi, il farmaco nominato è stato prescritto nell'11% delle visite. La prescrizione era più frequente quando il paziente chiedeva genericamente un antidepressivo (74%), quando non chiedeva nulla, le prescrizioni scendevano al 31%. Intermedio il caso in cui veniva chiesto "quel" farmaco (53%). Tuttavia il farmaco in questione è stato prescritto a chi lo chiedeva solo nel 27% dei casi, e sul totale del campione è stato prescritto solo al 17% dei pazienti.Diverso il caso delle visite di chi simulava il disturbo di adattamento: complessivamente ci sono state meno prescrizioni, il 34%; tuttavia se c'era una richiesta specifica o generale, questa veniva accontentata rispettivamente nel 55 e nel 39% dei casi e il farmaco nominato veniva prescritto ai due terzi di chi lo chiedeva. Dove sta l'errore: nel fatto che non c'è prova che in questo tipo di disturbi gli antidepressivi siano efficaci, e gli autori commentano che è una prescrizione ai limiti della correttezza. Quanto poi al ricevere cure adeguate, effettivamente il 98% dei depressi che chiedeva un farmaco specifico lo riceveva, e così il 90% di chi chiedeva genericamente un farmaco. Chi non chiedeva nulla veniva seguito nel modo adeguato soltanto nel 56% dei casi. L'interpretazione che danno gli autori è in sostanza questa: la richiesta del paziente non pesa molto in situazioni, come la depressione, più o meno note anche al medico non specialista o meglio svolge effetti positivi, visto che spesso la depressione non viene trattata adeguatamente dal medico di famiglia. In compenso pesa parecchio nelle condizioni meno frequenti e nelle quali l'uso del farmaco è meno indicato o non lo è per nulla: qui il rischio c'è. Tutto insomma dipende dal contesto e dalla situazione del singolo paziente. Magari se invece di fare pubblicità su farmaci che poi comunque vanno usati dal medico e sotto il suo controllo si facesse educazione sanitaria, le cose sarebbero più semplici.
Maurizio Imperiali
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...e inoltre su Dica33:
Pazienti finti ma convincenti
Questi pazienti finti sono stati inviati a un campione di medici di famiglia (sia generalisti sia internisti) di tre diverse città. A questo punto, recitando la loro parte, potevano: chiedere esplicitamente una marca di antidepressivo (la paroxetina), che all'epoca dello studio era al centro di una grande campagna pubblicitaria; chiedere genericamente che gli venisse prescritto un antidepressivo, senza fare nomi, oppure non chiedere nulla. Per inciso, questi pazienti standard erano piuttosto bravi: solo il 13% dei medici ha sospettato "il trucco", anche se ovviamente il risultato sarebbe stato diverso di fronte a uno psichiatra. I ricercatori volevano stabilire se la richiesta aumentava la prescrizione e, poi, se aumentava anche la probabilità di ricevere cure, al di là del farmaco, adeguate: per esempio il rinvio a uno specialista o la richiesta di ripresentarsi per un controllo.
Prescrizioni a richiesta? Sì
I risultati ci sono stati, e l'interpretazione non è dubbia. Nel caso della depressione maggiore, la visita si è conclusa con una prescrizione nel 54% dei casi, il farmaco nominato è stato prescritto nell'11% delle visite. La prescrizione era più frequente quando il paziente chiedeva genericamente un antidepressivo (74%), quando non chiedeva nulla, le prescrizioni scendevano al 31%. Intermedio il caso in cui veniva chiesto "quel" farmaco (53%). Tuttavia il farmaco in questione è stato prescritto a chi lo chiedeva solo nel 27% dei casi, e sul totale del campione è stato prescritto solo al 17% dei pazienti.Diverso il caso delle visite di chi simulava il disturbo di adattamento: complessivamente ci sono state meno prescrizioni, il 34%; tuttavia se c'era una richiesta specifica o generale, questa veniva accontentata rispettivamente nel 55 e nel 39% dei casi e il farmaco nominato veniva prescritto ai due terzi di chi lo chiedeva. Dove sta l'errore: nel fatto che non c'è prova che in questo tipo di disturbi gli antidepressivi siano efficaci, e gli autori commentano che è una prescrizione ai limiti della correttezza. Quanto poi al ricevere cure adeguate, effettivamente il 98% dei depressi che chiedeva un farmaco specifico lo riceveva, e così il 90% di chi chiedeva genericamente un farmaco. Chi non chiedeva nulla veniva seguito nel modo adeguato soltanto nel 56% dei casi. L'interpretazione che danno gli autori è in sostanza questa: la richiesta del paziente non pesa molto in situazioni, come la depressione, più o meno note anche al medico non specialista o meglio svolge effetti positivi, visto che spesso la depressione non viene trattata adeguatamente dal medico di famiglia. In compenso pesa parecchio nelle condizioni meno frequenti e nelle quali l'uso del farmaco è meno indicato o non lo è per nulla: qui il rischio c'è. Tutto insomma dipende dal contesto e dalla situazione del singolo paziente. Magari se invece di fare pubblicità su farmaci che poi comunque vanno usati dal medico e sotto il suo controllo si facesse educazione sanitaria, le cose sarebbero più semplici.
Maurizio Imperiali
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