17 marzo 2006
Aggiornamenti e focus
Un parto laborioso
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Dalla scoperta alla entrata in commercio, un nuovo farmaco attraversa un iter procedurale che dura almeno 10 anni. Per giungere alla produzione di un medicinale si parte, oggi, da centinaia o migliaia di molecole, che vengono inesorabilmente decimate dai test preliminari di laboratorio. Le poche che superano gli esami affrontano le prove successive, sempre più complesse, alla fine delle quali, con inpo' di fortuna, sopravvive una sola molecola. La selezione di quello che sarà il principio attivo migliore del gruppo, adattoall'impiego sull'uomo, è suddivisa a livello internazionale in 4 fasi.
L'introduzione di un farmaco in terapia deve sottostare ad un principio inderogabile:"primum non nocere" (anzitutto non nuocere). L'obiettivo, perciò, è verificare in laboratorio il maggior numero possibile di caratteristiche positive e negative di un farmaco: ecco spiegato il prolungamento di questa fase dai 5 agli 8-10 anni (contro i 2-3 anni utilizzatiall'inizio del secolo). Le nuove molecole, che possono nascere per sintesi chimica o per estrazione, vengono sottoposte a screening farmacologico: una serie di test in vitro che indicano se una sostanza può avere una qualche attività terapeutica. Identificatal'area si restringe via via il campo per comprendere verso quali patologie si indirizzal'attività della molecola. Più o meno a questo punto entrano in causa gli esperimenti su animali da laboratorio, che servono a comprendere le proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche di una sostanza. In pratica un principio attivo deve possedere una via di somministrazione accettabile, venire assorbito una volta somministrato, poi raggiungere i suoi bersagli, esplicare la sua azione e venire eliminato; il tutto, ovviamente, senza essere tossico.
Al termine di questa selezione restano poche molecole che devono passare alla fase clinica I, previa autorizzazione da parte degli organismi nazionali competenti (in Italia il Ministero della Salute). In generel'azienda, prima di presentare la documentazione necessaria per ottenerel'autorizzazione, provvede a brevettare le molecole.
È la prima sperimentazione sull'uomo: si effettua su un numero limitato (da 20 a 50) di volontari sani e serve a confermare quanto vistosull'animale, cioè che la molecola non è pericolosa. Operativamente i volontari vengono divisi in 2 o 3 gruppi, ciascun gruppo riceverà ogni giorno, per alcune settimane, una certa dose della sostanza in oggetto e sarà costantemente monitorato. Non a caso si parla di fasi cliniche, perché questi test avvengono in ambito ospedaliero, dove i soggetti possono essere tenuti sotto osservazione dal personale medico. Sorgono qui i primi problemi etici: per partecipare a una sperimentazione clinica, infatti, i volontari devono sottoscrivere un consenso informato. In fase I, tuttavia, le informazioni che i ricercatori possono fornire sono ancora limitate, lo studio non ha finalità terapeutiche ma solo conoscitive, gli individui sono sani, rispetto al tipo di patologia in discussione, e tutto ciò contraddice espressamente il principio etico di"evitare trattamenti inutili o dannosi". In questi casi, più che di consenso informato all'atto medico, si dovrebbe parlare di libera volontà di una persona di sottoporsi ad un'attività che espone se stessa a rischi. Nel nostro ordinamento, quando si è fuori da ogni giustificazione terapeutica, é operante il limite previsto dall'articolo 5 del Codice civile, secondo il quale "gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica". In mancanza di una previsione legislativa esplicita questo limite, che vige già in materia di donazione di organi, vale anche per la partecipazione ad attività sperimentali, dalle quali possa derivare una lesione permanente.
Fase II
La sperimentazione si allarga coinvolgendo un numero maggiore di individui, affetti dalle patologie che rientrano nel probabile campod'azione del candidato-farmaco. In questo modo si identificano le malattie (o la malattia) verso le quali la molecola è sicuramente attiva. Ulteriore scopo della fase II è stabilire la minima dose efficacesull'uomo e il regime di somministrazione ottimale, cioè posologia giornaliera e durata del trattamento. Contemporaneamente si continuano ad acquisire informazioni sulla sicurezza e tollerabilità della molecola. Questo stadio dura circa un paiod'anni.
Fase III
L'ultimo gradino, prima dell'entrata in commercio, deve soddisfare un numero molto ampio di requisiti e, quindi, può richiedere alcuni anni. La sperimentazione si effettua su qualche centinaio di pazienti che vengono randomizzati (assegnati casualmente) a ricevere il nuovo principio attivo, oppure il farmaco standard per quella patologia. In questa fase, infatti, si deve stabilire se la nuova molecola offre dei vantaggi, in termini di efficacia, rispetto a quelle già esistenti, altrimenti la sua commercializzazione non è giustificata.
Le norme
Il Codice di Norimberga nel 1947 proclamava in modo solenne che "il consenso volontario del soggetto è assolutamente necessario", riaffermando la diversità della pratica sperimentale da quella medico-assistenziale. La medicina scoprirà la necessità del consenso del paziente, come requisito pieno e non sostituibile da altre forme di legittimazione, solo nei decenni successivi attraverso un percorsotutt'altro che uniforme nei vari paesi e certo non esente da contraddizioni. Attualmente la normativa di riferimento internazionale è espressa dalla dichiarazione di Helsinki, adottata dalla World Medical Association nel 1964 e poi aggiornata,l'ultima versione è del 2000. A livello nazionale, invece, fanno testo le norme di buona pratica clinica (GCP) che riportano i criteri e i principi per la conduzione corretta delle sperimentazioni cliniche. In Italia il primo criterio enuncia:"Gli studi clinici devono essere condotti in conformità ai principi etici che traggono la loro origine dalla dichiarazione di Helsinki, e che rispettano la GCP e le disposizioni normativeapplicabili".
Elisa Lucchesini
Salute oggi:
...e inoltre su Dica33:
Fase 0 (pre-clinica)
L'introduzione di un farmaco in terapia deve sottostare ad un principio inderogabile:"primum non nocere" (anzitutto non nuocere). L'obiettivo, perciò, è verificare in laboratorio il maggior numero possibile di caratteristiche positive e negative di un farmaco: ecco spiegato il prolungamento di questa fase dai 5 agli 8-10 anni (contro i 2-3 anni utilizzatiall'inizio del secolo). Le nuove molecole, che possono nascere per sintesi chimica o per estrazione, vengono sottoposte a screening farmacologico: una serie di test in vitro che indicano se una sostanza può avere una qualche attività terapeutica. Identificatal'area si restringe via via il campo per comprendere verso quali patologie si indirizzal'attività della molecola. Più o meno a questo punto entrano in causa gli esperimenti su animali da laboratorio, che servono a comprendere le proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche di una sostanza. In pratica un principio attivo deve possedere una via di somministrazione accettabile, venire assorbito una volta somministrato, poi raggiungere i suoi bersagli, esplicare la sua azione e venire eliminato; il tutto, ovviamente, senza essere tossico.
Al termine di questa selezione restano poche molecole che devono passare alla fase clinica I, previa autorizzazione da parte degli organismi nazionali competenti (in Italia il Ministero della Salute). In generel'azienda, prima di presentare la documentazione necessaria per ottenerel'autorizzazione, provvede a brevettare le molecole.
Fase I
È la prima sperimentazione sull'uomo: si effettua su un numero limitato (da 20 a 50) di volontari sani e serve a confermare quanto vistosull'animale, cioè che la molecola non è pericolosa. Operativamente i volontari vengono divisi in 2 o 3 gruppi, ciascun gruppo riceverà ogni giorno, per alcune settimane, una certa dose della sostanza in oggetto e sarà costantemente monitorato. Non a caso si parla di fasi cliniche, perché questi test avvengono in ambito ospedaliero, dove i soggetti possono essere tenuti sotto osservazione dal personale medico. Sorgono qui i primi problemi etici: per partecipare a una sperimentazione clinica, infatti, i volontari devono sottoscrivere un consenso informato. In fase I, tuttavia, le informazioni che i ricercatori possono fornire sono ancora limitate, lo studio non ha finalità terapeutiche ma solo conoscitive, gli individui sono sani, rispetto al tipo di patologia in discussione, e tutto ciò contraddice espressamente il principio etico di"evitare trattamenti inutili o dannosi". In questi casi, più che di consenso informato all'atto medico, si dovrebbe parlare di libera volontà di una persona di sottoporsi ad un'attività che espone se stessa a rischi. Nel nostro ordinamento, quando si è fuori da ogni giustificazione terapeutica, é operante il limite previsto dall'articolo 5 del Codice civile, secondo il quale "gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica". In mancanza di una previsione legislativa esplicita questo limite, che vige già in materia di donazione di organi, vale anche per la partecipazione ad attività sperimentali, dalle quali possa derivare una lesione permanente.
Fase II
La sperimentazione si allarga coinvolgendo un numero maggiore di individui, affetti dalle patologie che rientrano nel probabile campod'azione del candidato-farmaco. In questo modo si identificano le malattie (o la malattia) verso le quali la molecola è sicuramente attiva. Ulteriore scopo della fase II è stabilire la minima dose efficacesull'uomo e il regime di somministrazione ottimale, cioè posologia giornaliera e durata del trattamento. Contemporaneamente si continuano ad acquisire informazioni sulla sicurezza e tollerabilità della molecola. Questo stadio dura circa un paiod'anni.
Fase III
L'ultimo gradino, prima dell'entrata in commercio, deve soddisfare un numero molto ampio di requisiti e, quindi, può richiedere alcuni anni. La sperimentazione si effettua su qualche centinaio di pazienti che vengono randomizzati (assegnati casualmente) a ricevere il nuovo principio attivo, oppure il farmaco standard per quella patologia. In questa fase, infatti, si deve stabilire se la nuova molecola offre dei vantaggi, in termini di efficacia, rispetto a quelle già esistenti, altrimenti la sua commercializzazione non è giustificata.
Le norme
Il Codice di Norimberga nel 1947 proclamava in modo solenne che "il consenso volontario del soggetto è assolutamente necessario", riaffermando la diversità della pratica sperimentale da quella medico-assistenziale. La medicina scoprirà la necessità del consenso del paziente, come requisito pieno e non sostituibile da altre forme di legittimazione, solo nei decenni successivi attraverso un percorsotutt'altro che uniforme nei vari paesi e certo non esente da contraddizioni. Attualmente la normativa di riferimento internazionale è espressa dalla dichiarazione di Helsinki, adottata dalla World Medical Association nel 1964 e poi aggiornata,l'ultima versione è del 2000. A livello nazionale, invece, fanno testo le norme di buona pratica clinica (GCP) che riportano i criteri e i principi per la conduzione corretta delle sperimentazioni cliniche. In Italia il primo criterio enuncia:"Gli studi clinici devono essere condotti in conformità ai principi etici che traggono la loro origine dalla dichiarazione di Helsinki, e che rispettano la GCP e le disposizioni normativeapplicabili".
Elisa Lucchesini
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