23 novembre 2007
Aggiornamenti e focus
Chiedi al gene se funziona
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Non è ancora chiaro se, e quando, si avranno delle reali terapie geniche, cioè se e quando sarà possibile intervenire sui geni responsabili di una malattia per correggerne l'azione. Però, se si sposta il discorso sul ruolo della genetica nel migliorare i risultati ottenibili con le attuali terapie, il futuro è già cominciato da un pezzo. Al mosaico della farmacogenetica si aggiunge ora un altro importante tassello, grazie a uno studio europeo che si è occupato del carcinoma della mammella. Per questa malattia, come tutti sanno, la chirurgia è la prima risorsa in assoluto, tuttavia può essere necessaria anche la chemioterapia adiuvante, cioè successiva all'intervento, o neoadiuvante, cioè preparatoria all'intervento. Nella scelta di procedere alla chemioterapia pesano diversi fattori, a cominciare dal fatto che il tumore sia positivo o negativo per il recettore estrogenico (Her2); i primi, infatti, raramente rispondono a questo trattamento. L'altra grande scelta è quale tipo di chemioterapia adottare: c'è quella classica che si basa sulle antracicline, cioè citotossici, e quella, più recente, basata sui taxani (docetaxel, paclitaxel). In entrambi i casi, non si impiega un solo farmaco, ma più d'uno. E' possibile stabilire in anticipo se una paziente beneficerà o meno della chemioterapia aggiunta alla chirurgia? Teoricamente sì, ma finora era mancata una risposta convincente dalla ricerca. Anche perché, dicono gli autori dello studio, non si era adeguatamente selezionata la popolazione da studiare, tenendo insieme pazienti Her-2 positive e negative.
Certamente non è facile mettere a punto marker genetici adeguati, in quanto si deve partire dalle ricerche in vitro, per isolare le caratteristiche genetiche che predicono ala risposta a un singolo farmaco, poi si devono "assemblare" i marker di risposta ai farmaci compresi nella terapia per costruire un marker unico. Operazione che è stata puntualmente eseguita in questo caso, costruendo il marker complesso della risposta a due diversi schemi: uno basato sulle antracicline (fluorouracile, epirubicina e ciclofosfamide) siglata FEC e uno basato sui taxani (docetaxel da solo e poi epirubicina e docetaxel associati) siglato TET. Nello studio sono state coinvolte 125 donne, tutte con tumore Her2 negativo trattate con una delle due chemioterapie prima di procedure all'intervento. Al termine della chemioterapia è stata valutata, mediante biopsia, la risposta istologica al trattamento: si controllava cioè se era scomparsa la componente cellulare invasiva del tumore. Inoltre, per queste pazienti, servendosi dell'RNA derivato da biopsie effettuate prima della teoria, si è valutata la presenza de due marker genetici, quello relativo alla risposta alla FEC e quello relativo alla TET. In effetti, il sistema funziona: se una donna presentava il marker della risposta alla FEC nel 68% dei casi si otteneva la risposta istologica completa, se non presentava il marker quasi sicuramente (96%) non rispondeva al trattamento. Analoghi risultati per il predittore della risposta alla TET: se era presente, nel 71% dei casi si aveva la risposta, se mancava, nel 92% dei casi mancava anche la risposta.
Semplificando all'estremo, questi marker complessi funzionano, e sono specifici. Certo, per sapere se oltre alla risposta istologica possono predire anche la sopravvivenza a lungo termine bisognerà attendere la fine dello studio. Anche così, però, le implicazioni sono molte e anche preziose. Se si fosse condotta l'indagine nel campione di questo studio prima di assegnare il trattamento, il numero di donne con risposta istologica completa sarebbe passato dal 44% al 70%, e non è poco. Inoltre, visto che i taxani sono più costosi, e gravati da una certa tossicità, si poteva ridurre l'onere economico e umano della terapia. Infine è importante poter contare su test che permettano di individuare le, o i, pazienti che probabilmente non trarranno beneficio dai trattamenti esistenti per avviarli ai nuovi trattamenti. Insomma, quando si parla di personalizzazione della terapia, non si parla a vanvera: è già possibile e non dipende soltanto, e nemmeno in gran parte, dall'arrivo di nuovi farmaci, ma dalla capacità di capire quali aspetti determinano il successo del trattamento, quando e per chi.
Maurizio Imperiali
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Si parte dalle cellule in vitro
Certamente non è facile mettere a punto marker genetici adeguati, in quanto si deve partire dalle ricerche in vitro, per isolare le caratteristiche genetiche che predicono ala risposta a un singolo farmaco, poi si devono "assemblare" i marker di risposta ai farmaci compresi nella terapia per costruire un marker unico. Operazione che è stata puntualmente eseguita in questo caso, costruendo il marker complesso della risposta a due diversi schemi: uno basato sulle antracicline (fluorouracile, epirubicina e ciclofosfamide) siglata FEC e uno basato sui taxani (docetaxel da solo e poi epirubicina e docetaxel associati) siglato TET. Nello studio sono state coinvolte 125 donne, tutte con tumore Her2 negativo trattate con una delle due chemioterapie prima di procedure all'intervento. Al termine della chemioterapia è stata valutata, mediante biopsia, la risposta istologica al trattamento: si controllava cioè se era scomparsa la componente cellulare invasiva del tumore. Inoltre, per queste pazienti, servendosi dell'RNA derivato da biopsie effettuate prima della teoria, si è valutata la presenza de due marker genetici, quello relativo alla risposta alla FEC e quello relativo alla TET. In effetti, il sistema funziona: se una donna presentava il marker della risposta alla FEC nel 68% dei casi si otteneva la risposta istologica completa, se non presentava il marker quasi sicuramente (96%) non rispondeva al trattamento. Analoghi risultati per il predittore della risposta alla TET: se era presente, nel 71% dei casi si aveva la risposta, se mancava, nel 92% dei casi mancava anche la risposta.
Una scelta finalmente a ragion veduta
Semplificando all'estremo, questi marker complessi funzionano, e sono specifici. Certo, per sapere se oltre alla risposta istologica possono predire anche la sopravvivenza a lungo termine bisognerà attendere la fine dello studio. Anche così, però, le implicazioni sono molte e anche preziose. Se si fosse condotta l'indagine nel campione di questo studio prima di assegnare il trattamento, il numero di donne con risposta istologica completa sarebbe passato dal 44% al 70%, e non è poco. Inoltre, visto che i taxani sono più costosi, e gravati da una certa tossicità, si poteva ridurre l'onere economico e umano della terapia. Infine è importante poter contare su test che permettano di individuare le, o i, pazienti che probabilmente non trarranno beneficio dai trattamenti esistenti per avviarli ai nuovi trattamenti. Insomma, quando si parla di personalizzazione della terapia, non si parla a vanvera: è già possibile e non dipende soltanto, e nemmeno in gran parte, dall'arrivo di nuovi farmaci, ma dalla capacità di capire quali aspetti determinano il successo del trattamento, quando e per chi.
Maurizio Imperiali
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