10 ottobre 2007
Aggiornamenti e focus
Pugilato pericoloso?
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La questione se la boxe sia uno sport pericoloso per chi lo pratica è dibattuta da tempo. Secoli addirittura. Già nell'antica Roma la pratica fu proibita da Cesare Augusto, a causa delle troppe ferite subite dai legionari. Poi, lo sport, anche se non tutti concordano sulla definizione, è riemerso e nel tempo sono state introdotte regole: dall'attesa dopo aver ricevuto un colpo, all'uso dei guantoni, fino a uno spazio sempre più ampio dedicato alle manovre difensive. La pratica è diventata così sempre più lunga e strategica, ma sempre di dare e prendere pugni si tratta, per cui se anche si sono ridotti i danni acuti, si è iniziato a parlare di danni cronici. E si è arrivati, almeno così sembrava, a piena convergenza sui rischi di lesioni intracraniche potenzialmente letali. Un accordo culminato nella recente pronuncia della British Medical Association che ha richiesto ufficialmente la messa al bando della boxe. In questo clima di generale concordia sui rischi della pratica pugilistica, arriva uno studio pubblicato sul British Medical Journal che fa qualche passo indietro. I rischi ci sono, è vero, ma non sono così gravi in particolare se il pugilato è amatoriale. Possibile?
Il primo studio nel quale si parla di danni cronici viene fatto risalire al 1928, data nella quale viene introdotta nella terminologia medica la parola "punch drunk", letteralmente ubriaco di pugni. E in quell'occasione l'unico caso clinico esaminato nello studio concerneva una sindrome di Parkinson idiopatica, e di Parkinson, non a caso, soffre il pugile probabilmente più famoso di tutti i tempi, Mohammed Alì. Da quello studio in poi di traumi cerebrali cronici si è parlato sempre di più e sempre più dettagliatamente. E il rischio si è identificato inevitabilmente nell'impatto violento che i pugni hanno sul capo. Il più grande studio disponibile in questo senso verte su 15 ex-boxer, 12 professionisti che hanno combattuto tra il 1900 e il 1940 con ottimi risultati. Ma si trattava di pugili fortemente esposti, con una media di 700 combattimenti in carriera. Da allora le cose sono cambiate. Come precisano gli autori, oggi le carriere sono molto più brevi e anche il rischio di danno concussivo va scemando. E' stato identificato anche un rischio genetico. Studi recenti hanno riscontrato che i pugili con l'apolipoproteina E4 sono più suscettibili a deficit neurologici cronici, 16 volte in più di quelli privi dell'allele ApoE4. Un ulteriore distinzione poi, che secondo i ricercatori ridimensionerebbe il rischio, riguarda amatori e professionisti. Se il rischio è dose correlato, allora gli amatori rischiano meno perché combattono match meno lunghi, per meno tempo (carriere più brevi cioè) e più protetti. Alla fine perciò, conclude l'editoriale di supporto allo studio, i risultati non devono sorprendere. I dati epidemiologici disponibili oggi dimostrano che la moderna boxe, che non si combatte a mani nude ne senza protezioni, non è così pericolosa. E a poco comunque potrebbe servire sottoporsi con regolarità a risonanze magnetiche o a supervisioni mediche. Al limite si potrebbe raccomandare, conclude l'editoriale, il test per la predisposizione genetica, un modo per aumentare la consapevolezza dei rischi. Ma subentrano problematiche etiche. E la questione è già parecchio complessa.
Marco Malagutti
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Ubriachi di pugni
Il primo studio nel quale si parla di danni cronici viene fatto risalire al 1928, data nella quale viene introdotta nella terminologia medica la parola "punch drunk", letteralmente ubriaco di pugni. E in quell'occasione l'unico caso clinico esaminato nello studio concerneva una sindrome di Parkinson idiopatica, e di Parkinson, non a caso, soffre il pugile probabilmente più famoso di tutti i tempi, Mohammed Alì. Da quello studio in poi di traumi cerebrali cronici si è parlato sempre di più e sempre più dettagliatamente. E il rischio si è identificato inevitabilmente nell'impatto violento che i pugni hanno sul capo. Il più grande studio disponibile in questo senso verte su 15 ex-boxer, 12 professionisti che hanno combattuto tra il 1900 e il 1940 con ottimi risultati. Ma si trattava di pugili fortemente esposti, con una media di 700 combattimenti in carriera. Da allora le cose sono cambiate. Come precisano gli autori, oggi le carriere sono molto più brevi e anche il rischio di danno concussivo va scemando. E' stato identificato anche un rischio genetico. Studi recenti hanno riscontrato che i pugili con l'apolipoproteina E4 sono più suscettibili a deficit neurologici cronici, 16 volte in più di quelli privi dell'allele ApoE4. Un ulteriore distinzione poi, che secondo i ricercatori ridimensionerebbe il rischio, riguarda amatori e professionisti. Se il rischio è dose correlato, allora gli amatori rischiano meno perché combattono match meno lunghi, per meno tempo (carriere più brevi cioè) e più protetti. Alla fine perciò, conclude l'editoriale di supporto allo studio, i risultati non devono sorprendere. I dati epidemiologici disponibili oggi dimostrano che la moderna boxe, che non si combatte a mani nude ne senza protezioni, non è così pericolosa. E a poco comunque potrebbe servire sottoporsi con regolarità a risonanze magnetiche o a supervisioni mediche. Al limite si potrebbe raccomandare, conclude l'editoriale, il test per la predisposizione genetica, un modo per aumentare la consapevolezza dei rischi. Ma subentrano problematiche etiche. E la questione è già parecchio complessa.
Marco Malagutti
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