03 agosto 2005
Aggiornamenti e focus
C'è ricaduta e ricaduta
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Negli Stati Uniti, il trattamento del tumore della prostata è alquanto aggressivo rispetto alla visione europea. In effetti, la prostatectomia radicale è l'intervento più frequentemente eseguito, soprattutto quando il tumore raggiunge una certa entità.Anche se le casistiche americane presentano una buona (e anche molto buona) sopravvivenza, tuttavia questo non toglie che si presentino recidive. Spesso la ricomparsa del tumore, prima che da metastasi "visibili" è annunciata dal ripresentarsi di livelli sensibili di PSA, l'antigene prostatico specifico, che è la sostanza prodotta unicamente dalla prostata e che, rimossa la ghiandola, dovrebbe essere a livelli molto bassi. Anche quando ci sono recidive chimiche, però, non è detto che si presentino metastasi e che, pur presentandosi le metastasi, si rivelino fatali per il paziente. In ogni caso, si stima che a dieci anni dall'intervento radicale, il 35% dei pazienti vada incontro a una recidiva biochimica. Come sempre in questi casi, per evitare cure inutili, sarebbe ideale poter disporre di una serie di indicatori capaci di anticipare con una certa approssimazione quale sarà il destino del tumore (e con lui del paziente).
Nel caso del carcinoma della prostata è una vecchia questione, in gran parte ancora aperta. Il problema si ripropone nel caso delle recidive, ed è stato affrontato da uno studio che ha preso in considerazione una coorte di 379 uomini, tutti sottoposti a prostatectomia radicale e tutti interessati da recidiva biochimica. Facendo un'analisi delle diverse caratteristiche del gruppo, i ricercatori hanno stabilito che la possibilità di morire per ricaduta del tumore era influenzata da tre fattori principali: l'intervallo di tempo tra l'intervento e la recidiva, il tempo di raddoppio del PSA (PSADT), il punteggio di Gleason (che stabilisce la gravità della prima lesione). In altre parole, queste variabili possono essere combinate in modo da stabilire quali possibilità ci sono che il paziente vada incontro a morte per tumore. Per esempio, i pazienti per i quali il PSA è raddoppiato in meno di 3 mesi, hanno avuto la ricaduta entro 3 anni dall'intervento e avevano un punteggio di Gleason da 8 a 10, hanno evidenziato una sopravvivenza attorno ai tre anni. Al contrario, se il PSA raddoppia in più di 15 mesi, e la ricaduta si è presentata a più di tre anni dalla prostatectomia, si potrebbe escludere il decesso a causa del tumore della prostata.
L'importanza di queste conclusioni, che andrebbero confermate con studi più ampi, è evidente. Ogni trattamento, radiante, chirurgico o farmacologico, in quest'area delicata, non è esente da effetti indesiderati, soprattutto a detrimento della qualità della vita; ragion per cui evitare manovre inutili è un vantaggio non trascurabile. Resta comunque il fatto, come ricorda un editoriale a commento, che quello della prostata è un tumore per molti aspetti imprevedibile, che colpisce in maggioranza persone molto anziane, molto spesso affette anche da altre malattie. Quindi, si argomenta, anche prendere come punto di riferimento la morte dovuta esclusivamente al tumore potrebbe giustificare una quota di interventi che giustificabili non sono. In altre parole: se si soffre di insufficienza cardiaca, con prognosi infausta, anche se il PSA raddoppia in fretta, è il caso di affrontare una chemio a 76 anni? Certo sono decisioni che, magari, non vanno lasciate alla medicina...
Maurizio Imperiali
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L'antigene raddoppia...
Nel caso del carcinoma della prostata è una vecchia questione, in gran parte ancora aperta. Il problema si ripropone nel caso delle recidive, ed è stato affrontato da uno studio che ha preso in considerazione una coorte di 379 uomini, tutti sottoposti a prostatectomia radicale e tutti interessati da recidiva biochimica. Facendo un'analisi delle diverse caratteristiche del gruppo, i ricercatori hanno stabilito che la possibilità di morire per ricaduta del tumore era influenzata da tre fattori principali: l'intervallo di tempo tra l'intervento e la recidiva, il tempo di raddoppio del PSA (PSADT), il punteggio di Gleason (che stabilisce la gravità della prima lesione). In altre parole, queste variabili possono essere combinate in modo da stabilire quali possibilità ci sono che il paziente vada incontro a morte per tumore. Per esempio, i pazienti per i quali il PSA è raddoppiato in meno di 3 mesi, hanno avuto la ricaduta entro 3 anni dall'intervento e avevano un punteggio di Gleason da 8 a 10, hanno evidenziato una sopravvivenza attorno ai tre anni. Al contrario, se il PSA raddoppia in più di 15 mesi, e la ricaduta si è presentata a più di tre anni dalla prostatectomia, si potrebbe escludere il decesso a causa del tumore della prostata.
Trattamenti poco giustificabili?
L'importanza di queste conclusioni, che andrebbero confermate con studi più ampi, è evidente. Ogni trattamento, radiante, chirurgico o farmacologico, in quest'area delicata, non è esente da effetti indesiderati, soprattutto a detrimento della qualità della vita; ragion per cui evitare manovre inutili è un vantaggio non trascurabile. Resta comunque il fatto, come ricorda un editoriale a commento, che quello della prostata è un tumore per molti aspetti imprevedibile, che colpisce in maggioranza persone molto anziane, molto spesso affette anche da altre malattie. Quindi, si argomenta, anche prendere come punto di riferimento la morte dovuta esclusivamente al tumore potrebbe giustificare una quota di interventi che giustificabili non sono. In altre parole: se si soffre di insufficienza cardiaca, con prognosi infausta, anche se il PSA raddoppia in fretta, è il caso di affrontare una chemio a 76 anni? Certo sono decisioni che, magari, non vanno lasciate alla medicina...
Maurizio Imperiali
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