19 settembre 2016
Interviste
Cilento: centenari grazie alla proteina di lunga vita
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Lo studio ha un nome curioso, formato dalle iniziali in inglese del Cilento on aging outcomes study - Ciao - e contiene un saluto rivolto ai centenari del Cilento, area della provincia di Salerno dichiarata dall'Unesco Patrimonio dell'Umanità. È grazie a loro, e alle loro famiglie, che si è giunti a scoprire una interessante correlazione tra una particolare proteina, chiamata adrenomedullina (in sigla Adm), e la tendenza a vivere non solo molto a lungo, ma in condizioni di salute invidiabili. A capo del gruppo internazionale di ricercatori, il napoletano Salvatore Di Somma professore di Medicina interna all'Università Sapienza di Roma e responsabile della medicina di emergenza dell'Ospedale Sant'Andrea, cui Dica33 ha posto alcune domande.
Professor Di Somma, che cosa avete scoperto sul meccanismo dell'invecchiamento?
«Il nostro studio ha sottoposto a un esame del sangue un piccolo campione di 28 ultracentenari e di 50 loro familiari conviventi, dell'età media di sessant'anni, che condividono lo stesso microambiente e le abitudini, tra cui ovviamente quelle alimentari. I partecipanti allo studio sono residenti in 8 paesi del Cilento tra cui Acciaroli, che affaccia sul mare, e altri nell'entroterra montano, come Casal Velino e Futani. L'esame del sangue ha misurato la presenza di alcune proteine, per cercare differenze rispetto alla popolazione generale eventualmente presenti in questo sottogruppo che sappiamo essere particolarmente longevo, per un insieme di fattori genetici e ambientali».
Avete così scoperto che negli ultracentenari - tra cui per convenzione internazionale si calcolano anche gli ultranovantenni - ci sono livelli più bassi del normale di adrenomedullina...
«Sì. Ma non solo: con il nostro studio pilota abbiamo anche osservato che gli ultracentenari con livelli particolarmente bassi di adrenomedullina hanno in generale uno stato di salute (cuore, reni e fegato) migliore dei loro coetanei, e paragonabile a quello di persone con venti o trenta anni di meno. Si sono molti meno malati di Alzheimer, malattie cardiovascolari in forma grave, cataratta».
Quindi sarebbe un marcatore dell'invecchiamento e della buona salute?
«In un certo senso sì, anche se in qualche modo lo si sapeva già. Questa osservazione è stata fatta per la prima volta in persone sane, ma l'adrenomedullina è già studiata da tempo in alcune condizioni molto gravi per il suo effetto negativo. Per esempio è noto che nel caso del cosiddetto shock settico, o sepsi, che si presenta in pronto soccorso, i livelli alti sono associati a una maggiore gravità, e a una prognosi peggiore. Ora il prossimo passo della nostra ricerca prevede di ripetere le stesse analisi ampliando decisamente il campione: con l'aiuto dei medici di medicina generale del Cilento abbiamo già individuato circa 300 pazienti, che contiamo di reclutare nei prossimi mesi».
Che relazione c'è tra i livelli di adrenomedullina, gli stili di vita e le abitudini alimentari?
«È ancora difficile dirlo, perché l'invecchiamento in buona salute è sicuramente legato a molti fattori concomitanti. I grandi anziani del Cilento in generale sono di bassa statura e hanno un basso peso corporeo. Oltre all'aspetto genetico, siamo convinti che un ruolo importante sia svolto dalle abitudini alimentari - con al primo posto la dieta mediterranea - e dagli stili di vita: molti di loro abitano in luoghi difficili da raggiungere, ma sono inseriti in un contesto sociale in cui rimangono molto attivi, e tendono per esempio a usare in cucina verdure e odori raccolti davanti a casa, e cucinati freschi».
Questa osservazione apre la strada a possibili nuove strategie anti-invecchiamento?
«Come ho già detto si tratta di uno studio pilota, e di dati assolutamente preliminari. Al momento l'eventuale approccio farmacologico per antagonizzare e quindi abbassare l'adrenomedullina riguarderà semmai i malati in specifiche situazioni gravi. Solo in prospettiva molto futura (una volta che saranno completati gli studi sui pazienti critici) potranno essere condotti studi ad hoc su un'ampia popolazione di pazienti per valutare la possibilità eventuale di controllare il livello del biomarcatore sui soggetti sani allo scopo di allungare la vita. Ma da questo siamo ancora molto lontani».
Fabio Turone
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