23 settembre 2005
Aggiornamenti e focus
Interventi sulle carotidi
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E’ difficile dire che nell’organismo esistano organi fondamentali e altri che non lo sono, ma certamente le arterie carotidi hanno un ruolo fondamentale, dal momento che assicurano gran parte dell’afflusso di sangue al cervello. Come tutte le arterie possono essere attaccate dall’aterosclerosi, cioè dalla formazione della placca di colesterolo, piastrine e altri elementi che, alla fine, conduce all’occlusione dell’arteria. Se con le coronarie stenotiche si ha l’angina e quando si occludono si ha l’infarto, se si occludono le carotidi si ha l’ictus e anche quando sono parzialmente ostruite (stenosi) si hanno i cosiddetti TIA, cioè attacchi ischemici transitori. Si tratta di brevi periodi in cui si ha un diminuito afflusso di sangue al cervello, che può manifestarsi con oscuramento della visione, perdita della capacità motoria e altri disturbi analoghi ma da un solo lato. Nel caso dell’ictus ischemico vero e proprio queste conseguenze dell’anossia del cervello possono essere permanenti.
L’intervento per ristabilire il flusso normale delle carotidi si chiama endoarterectomia. L’intervento consiste nella rimozione della placca aterosclerotica. Inizialmente la metodica era solo di tipo tradizionale: si incideva il collo, si esponeva l’arteria e, con una tecnica chiamata shunt, si deviava il corso del sangue attraverso un tubetto, così da “saltare” il tratto stenotico. Ciò fatto, il chirurgo apre l’arteria e procede all’ablazione dell’ostruzione. Più recentemente (l’endoraterectomia si esegue dal 1954) si sono applicate a questo intervento le metodiche dell’angioplastica. L’ostruzione, dunque, viene rimossa inserendo un sottile catetere all’interno dell’arteria e procedendo alla rimozione della placca mediante l’ormai famoso palloncino, spesso servendosi di dispositivi che impediscono ai frammenti del materiale rimosso di fluire verso il cervello. Come nel caso della rivascolarizzazione delle coronarie, all’arteria trattata è possibile applicare uno stent, una specie di tubetto metallico che impedisce all’arteria di richiudersi. I vantaggi di questa metodica sono evidenti: è meno cruenta e richiede un’ospedalizzazione più breve. D’altra parte richiede un operatore abile e non è adatta a tutte le situazioni. Contrariamente a quanto si può pensare, a questo tipo di intervento non si ricorre quando l’ictus c’è già stato, ma prima e, oltretutto, non quando il flusso attraverso l’arteria interessata è completamente bloccato, ma quando la stenosi è pari al 75-99%. Infatti procedere a questo modo quando l’arteria è completamente occlusa significherebbe rischiare di provocare un’embolia cerebrale.
Inoltre, mentre è chiaro che quando il paziente presenta sintomi ha un senso intervenire, i benefici, quando il paziente ha sì una stenosi ma non presenta TIA o altre manifestazioni, sono ridotti, quindi la scelta risente molto di più delle caratteristiche individuali del paziente.
Gianluca Casponi
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Che cos’è l’endoarterectomia
L’intervento per ristabilire il flusso normale delle carotidi si chiama endoarterectomia. L’intervento consiste nella rimozione della placca aterosclerotica. Inizialmente la metodica era solo di tipo tradizionale: si incideva il collo, si esponeva l’arteria e, con una tecnica chiamata shunt, si deviava il corso del sangue attraverso un tubetto, così da “saltare” il tratto stenotico. Ciò fatto, il chirurgo apre l’arteria e procede all’ablazione dell’ostruzione. Più recentemente (l’endoraterectomia si esegue dal 1954) si sono applicate a questo intervento le metodiche dell’angioplastica. L’ostruzione, dunque, viene rimossa inserendo un sottile catetere all’interno dell’arteria e procedendo alla rimozione della placca mediante l’ormai famoso palloncino, spesso servendosi di dispositivi che impediscono ai frammenti del materiale rimosso di fluire verso il cervello. Come nel caso della rivascolarizzazione delle coronarie, all’arteria trattata è possibile applicare uno stent, una specie di tubetto metallico che impedisce all’arteria di richiudersi. I vantaggi di questa metodica sono evidenti: è meno cruenta e richiede un’ospedalizzazione più breve. D’altra parte richiede un operatore abile e non è adatta a tutte le situazioni. Contrariamente a quanto si può pensare, a questo tipo di intervento non si ricorre quando l’ictus c’è già stato, ma prima e, oltretutto, non quando il flusso attraverso l’arteria interessata è completamente bloccato, ma quando la stenosi è pari al 75-99%. Infatti procedere a questo modo quando l’arteria è completamente occlusa significherebbe rischiare di provocare un’embolia cerebrale.
Inoltre, mentre è chiaro che quando il paziente presenta sintomi ha un senso intervenire, i benefici, quando il paziente ha sì una stenosi ma non presenta TIA o altre manifestazioni, sono ridotti, quindi la scelta risente molto di più delle caratteristiche individuali del paziente.
Gianluca Casponi
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