Emboli dimessi in fretta

30 maggio 2008
Aggiornamenti e focus

Emboli dimessi in fretta



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L'embolia polmonare è una condizione relativamente diffusa, spesso conseguenza anche di molti interventi chirurgici importanti. Infatti l'interessamento di grandi vasi rende probabile il formarsi di emboli, con tutte le conseguenze del caso. Fortunatamente, l'arrivo di terapie anticoagulanti maneggevoli e sicure, in particolare l'eparina e le eparine a basso peso molecolare, consentono di affrontare con maggiore tranquillità questa evenienza. Forse con troppa tranquillità, suggerisce una ricerca statunitense, che ha messo in discussione la pratica, piuttosto diffusa, di dimettere i pazienti colpiti da embolia in tempi brevi, fidando nel fatto che la terapia anticoagulante orale o iniettiva può essere eseguita a domicilio senza troppe difficoltà. La ricerca si è focalizzata, quindi, sul destino dei pazienti dimessi dall'ospedale con una diagnosi di embolia polmonare, oltre 15500 di 186 ospedali della Pennsylvania, valutando soprattutto la mortalità entro i trenta giorni dalla dimissione, e mettendo in relazione il tutto con la durata della degenza. Inoltre, si è valutato quali fattori, sia legati al paziente, per esempio la gravità delle loro condizioni, sia legati all'ospedale, fossero associati alla possibilità di una dimissione accelerata o, al contrario, a una degenza più lunga.

Il sistema complessivamente funziona


Il primo dato generale è che la mortalità tra i pazienti dimessi è stata del 3,3%, quindi relativamente bassa, con il che si conferma che la terapia anticoagulante funzione abbastanza adeguatamente. In secondo luogo, la metà dei pazienti era stata dimessa entro 6 giorni. Ma questo non significa che tutto vada per il meglio: intanto la durata della degenza variava di parecchio da un centro all'altro; inoltre, c'era comunque una buona quota di pazienti (il 53%) di una certa gravità che veniva dimessa al quarto giorno se non prima. Ed è proprio tra chi restava ricoverato al massimo quattro giorni che si registrava una mortalità relativamente più elevata (il 10%). Insomma, come spiega anche un editoriale a commento dello studio, è possibile che nel valutare lo stato del malato si pecchi di ottimismo. E' vero che anche i pazienti trattenuti per più di otto giorni facevano registrare una più elevata mortalità, ma questo poteva essere dovuta al fatto che si trattasse di pazienti resistenti agli anticoagulanti orali, oppure di pazienti andati incontro a complicanze o in ogni caso più gravi. Resta il fatto che una degenza troppo breve non pare confacente a una certa parte dei pazienti che pure sono dimessi in fretta.

Non si pensi troppo ai costi


Perché si ricorra alla dimissione accelerata è presto detto: costa meno, e questo aspetto è ben presente agli autori. Peraltro, è consolante che tra i fattori non clinici che si associano a una maggiore durata del ricovero ci sia anche la mancanza di un'assicurazione privata, segno che comunque i medici cercano di tutelare chi ha meno probabilità di ricevere cure adeguate una volta tornato a casa. Nell'editoriale, poi, si aggiunge che, come non si dimette in pochi giorni chi ha avuto un infarto con elevazione del segmento S-T, condizione che presenta anch'essa una mortalità di circa il 10%, lo stesso atteggiamento andrebbe tenuto per pazienti con embolia di una certa gravità. Inoltre si ricorda che la prima settimana di trattamento è cruciale, anzi è una fase in cui il paziente è molto vulnerabile. In definitiva, dicono, occorrono dei criteri clinici precisi per scegliere quali pazienti possono essere dimessi a breve senza rischio, o meglio con rischi minimi. Ma soprattutto, in vista di un possibile inasprimento delle misure per ridurre i costi, si deve considerare che non è logico porre delle barriere fisse (quattro giorno o sei o otto) ma caso mai considerare un obiettivo il restare il meno possibile in ospedale, ma che il meno possibile varia da caso a caso.

Maurizio Imperiali



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