16 giugno 2006
Aggiornamenti e focus
Rianimazione? Meglio quella manuale
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Il risultato ha destato grossa sorpresa negli stessi ricercatori e ha smentito il luogo comune che vuole tutto ciò che è tecnologico per forza di cose efficace. Due studi statunitensi, pubblicati su Jama, hanno, infatti, concluso che la rianimazione manuale tradizionale può determinare meno effetti collaterali nel paziente colpito da infarto fuori dall'ospedale. Un problema piuttosto diffuso. Basti pensare che se sono oltre 200mila gli infarti in Italia, più o meno uno ogni tre o quattro minuti, di questi un quinto è fatale e la morte avviene nel 50% dei casi prima dell'arrivo in ospedale. Molti in casa. Di fronte a situazioni del genere si cerca la rianimazione manuale, ma sono sempre più in voga apparecchiature per la rianimazione piuttosto semplici da usare e secondo studi di laboratorio molto efficaci. Ma la prova sul campo ha smentito le premesse.
Si tratta, spiegano nell'editoriale di Jama i ricercatori, di un problema piuttosto diffuso e sicuramente di importante incidenza sulla salute pubblica: la morte per attacco cardiaco fuori dall'ospedale. Oltre 1000 vite al giorno, si è detto a una recente conferenza, vengono a mancare negli Stati Uniti per questa ragione, l'equivalente di due incidenti aerei che non lascino sopravvissuti. Per questo si lavora per ottimizzare la catena degli eventi per la sopravvivenza, ma spesso le funzioni neurologiche dei pazienti restano compromesse. Una buona rianimazione cardiopolmonare migliora la sopravvivenza ma è difficile da realizzare per un periodo esteso, soprattutto se effettuata manualmente. E molto dipende anche dal momento in cui si interviene. Ecco perché sono in fase di sviluppo e di sperimentazione una serie di apparecchi che supportino la rianimazione manuale. Tra questi l'apparecchio in questione chiamato Autopulse, che consiste di una fascia applicata sul petto che una volta attivata elettronicamente garantisce 80 compressioni al minuto. E nonostante gli entusiasmi iniziali, riferiti in particolare agli esiti primari, gli studi di Jama invitano a una maggiore cautela. Vediamo perché. L'indagine in questione si chiama Assisted Prehospital International Resuscitation Research (Aspire) ed è stata condotta in cinque diverse città statunitensi da esperti dell'università di Pittsburgh. Analizzando le storie di 1071 pazienti colpiti da infarto per strada, 517 dei quali rianimati manualmente e 554 con l'utilizzo dell'Autopulse, gli studiosi hanno notato che fra i sopravvissuti all'attacco di cuore, molti più appartenenti al secondo gruppo soffrivano di menomazioni cognitive e di problemi neurologici di vario genere. Se quindi non era significativamente diversa la differenza in termini di quantità di sopravvissuti (29,5% con rianimazione manuale contro 28,5% con l'automatica) lo era quella di valutazione delle condizioni cognitive una volta fuori dall'ospedale. Sulla stessa lunghezza d'onda un altro studio rretrospettivo condotto sulla stessa apparecchiatura, ma effettuato in un'unica struttura d'emergenza. Questo non vuol dire, concludono i ricercatori, abbandonare l'idea di utilizzare dispositivi meccanici per la rianimazione, ma occorrono senza dubbio ulteriori approfondimenti per migliorare la funzionalità o la modalità d'uso. Ma salvare quante più vite possibile resta prioritario.
Marco Malagutti
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Lo studio di Jama
Si tratta, spiegano nell'editoriale di Jama i ricercatori, di un problema piuttosto diffuso e sicuramente di importante incidenza sulla salute pubblica: la morte per attacco cardiaco fuori dall'ospedale. Oltre 1000 vite al giorno, si è detto a una recente conferenza, vengono a mancare negli Stati Uniti per questa ragione, l'equivalente di due incidenti aerei che non lascino sopravvissuti. Per questo si lavora per ottimizzare la catena degli eventi per la sopravvivenza, ma spesso le funzioni neurologiche dei pazienti restano compromesse. Una buona rianimazione cardiopolmonare migliora la sopravvivenza ma è difficile da realizzare per un periodo esteso, soprattutto se effettuata manualmente. E molto dipende anche dal momento in cui si interviene. Ecco perché sono in fase di sviluppo e di sperimentazione una serie di apparecchi che supportino la rianimazione manuale. Tra questi l'apparecchio in questione chiamato Autopulse, che consiste di una fascia applicata sul petto che una volta attivata elettronicamente garantisce 80 compressioni al minuto. E nonostante gli entusiasmi iniziali, riferiti in particolare agli esiti primari, gli studi di Jama invitano a una maggiore cautela. Vediamo perché. L'indagine in questione si chiama Assisted Prehospital International Resuscitation Research (Aspire) ed è stata condotta in cinque diverse città statunitensi da esperti dell'università di Pittsburgh. Analizzando le storie di 1071 pazienti colpiti da infarto per strada, 517 dei quali rianimati manualmente e 554 con l'utilizzo dell'Autopulse, gli studiosi hanno notato che fra i sopravvissuti all'attacco di cuore, molti più appartenenti al secondo gruppo soffrivano di menomazioni cognitive e di problemi neurologici di vario genere. Se quindi non era significativamente diversa la differenza in termini di quantità di sopravvissuti (29,5% con rianimazione manuale contro 28,5% con l'automatica) lo era quella di valutazione delle condizioni cognitive una volta fuori dall'ospedale. Sulla stessa lunghezza d'onda un altro studio rretrospettivo condotto sulla stessa apparecchiatura, ma effettuato in un'unica struttura d'emergenza. Questo non vuol dire, concludono i ricercatori, abbandonare l'idea di utilizzare dispositivi meccanici per la rianimazione, ma occorrono senza dubbio ulteriori approfondimenti per migliorare la funzionalità o la modalità d'uso. Ma salvare quante più vite possibile resta prioritario.
Marco Malagutti
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