21 novembre 2007
Aggiornamenti e focus
Le pillole non fanno miracoli
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Oltre un miliardo di persone nel mondo sono obese o in sovrappeso. E si stima che solo nel 2005 siano stati spesi circa 1,2 miliardi di dollari in farmaci anti-obesità. Soldi ben spesi? Il dubbio viene a leggere uno studio del British Medical Journal, dal quale si evince come l'efficacia di questi farmaci sia bassa o comunque inferiore a quello che ci si potrebbe aspettare. Del resto, le linee guida lo dicono piuttosto chiaramente. Il trattamento principale di una persona obesa è una dieta appropriata, associata a un supporto adeguato e a un giusto incoraggiamento; si dovrebbe inoltre spingere l'obeso ad aumentare l'attività fisica. I farmaci vengono solo dopo e solo in situazioni particolari. Un farmaco per il trattamento di questa condizione, infatti, dovrebbe essere prescritto solo alle persone con indice di massa corporea di 30 kg/m² o maggiore, nelle quali almeno tre mesi di dieta controllata, esercizio fisico e modificazioni del comportamento non abbiano raggiunto l'obiettivo di una riduzione reale di peso. Se poi vi sono fattori di rischio, uno su tutti il diabete, può essere appropriato prescrivere farmaci anche a soggetti con BMI inferiore. Fatte queste premesse lo studio, pubblicato sul British Medical Journal cerca di riepilogare l'efficacia a lungo termine dei farmaci oggi disponibili nel ridurre il peso e nel migliorare la condizione di salute. Con risultati poco lusinghieri.
I farmaci in questione sono tre. Orlistat, la cui azione si esplica nell'inibire le lipasi gastriche e pancreatiche, fondamentali per l'assimilazione dei grassi; poi c'è sibutramina, che agisce a livello centrale, cioè sui neurotrasmettitori coinvolti nella ricerca del cibo. Infine l'ultimo della serie è rimonabant, che agisce sempre a livello centrale, ma con azione differente. Tre farmaci il cui giro di mercato è piuttosto rilevante e destinato a esserlo ancora di più in prospettiva, vista la sempre maggiore incidenza della malattia e visti i nuovi agenti in sviluppo. Ma ne vale la pena? I ricercatori concludono di no, o quantomeno non del tutto. Le pillole anti-obesità, infatti, riescono a far perdere non più del 5% del peso complessivo, un risultato piuttosto modesto. Gli studi presi in esame in questa metanalisi, trenta in tutto, di cui 14 nuovi e 16 già esaminati, riguardano all'incirca ventimila persone. Si è così visto che, rispetto al placebo, i farmaci facevano perdere dai 2,9 (orlistat) ai 4,7 chili (rimonabant) al massimo. Una quota non così rilevante, anche se vanno considerati altri benefici in termini di salute. Orlistat, per esempio, riduce l'incidenza del diabete. D'altro canto su rimonabant uno studio appena pubblicato da Lancet ha rilevato, dopo un anno di trattamento, un 40 per cento di rischio in più di gravi disturbi psichiatrici. Nel complesso, concludono gli autori, la scelta di prescrivere o meno un farmaco anti-obesità va valutata attentamente. La perdita di peso è modesta e gran parte dei pazienti rimangono obesi o sovrappeso dopo la farmacoterapia. In più sono farmaci costosi e spesso associati a effetti avversi. Sull'altro piatto della bilancia, vanno considerati qualche lieve progresso nel profilo di rischio cardiovascolare, la possibilità di una buona risposta e le sempre maggiori evidenze che anche una perdita di peso lieve può essere positiva in pazienti col diabete tipo 2. Ma qualsiasi scelta terapeutica venga fatta, una cosa è chiara e la dice il National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE): se dopo tre mesi di terapia farmacologica non è stata raggiunta la perdita di peso minima, la soglia del 5% cioè, allora è meglio lasciar perdere.
Marco Malagutti
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Scelte da ponderare
I farmaci in questione sono tre. Orlistat, la cui azione si esplica nell'inibire le lipasi gastriche e pancreatiche, fondamentali per l'assimilazione dei grassi; poi c'è sibutramina, che agisce a livello centrale, cioè sui neurotrasmettitori coinvolti nella ricerca del cibo. Infine l'ultimo della serie è rimonabant, che agisce sempre a livello centrale, ma con azione differente. Tre farmaci il cui giro di mercato è piuttosto rilevante e destinato a esserlo ancora di più in prospettiva, vista la sempre maggiore incidenza della malattia e visti i nuovi agenti in sviluppo. Ma ne vale la pena? I ricercatori concludono di no, o quantomeno non del tutto. Le pillole anti-obesità, infatti, riescono a far perdere non più del 5% del peso complessivo, un risultato piuttosto modesto. Gli studi presi in esame in questa metanalisi, trenta in tutto, di cui 14 nuovi e 16 già esaminati, riguardano all'incirca ventimila persone. Si è così visto che, rispetto al placebo, i farmaci facevano perdere dai 2,9 (orlistat) ai 4,7 chili (rimonabant) al massimo. Una quota non così rilevante, anche se vanno considerati altri benefici in termini di salute. Orlistat, per esempio, riduce l'incidenza del diabete. D'altro canto su rimonabant uno studio appena pubblicato da Lancet ha rilevato, dopo un anno di trattamento, un 40 per cento di rischio in più di gravi disturbi psichiatrici. Nel complesso, concludono gli autori, la scelta di prescrivere o meno un farmaco anti-obesità va valutata attentamente. La perdita di peso è modesta e gran parte dei pazienti rimangono obesi o sovrappeso dopo la farmacoterapia. In più sono farmaci costosi e spesso associati a effetti avversi. Sull'altro piatto della bilancia, vanno considerati qualche lieve progresso nel profilo di rischio cardiovascolare, la possibilità di una buona risposta e le sempre maggiori evidenze che anche una perdita di peso lieve può essere positiva in pazienti col diabete tipo 2. Ma qualsiasi scelta terapeutica venga fatta, una cosa è chiara e la dice il National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE): se dopo tre mesi di terapia farmacologica non è stata raggiunta la perdita di peso minima, la soglia del 5% cioè, allora è meglio lasciar perdere.
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