La fretta fa il farmaco rischioso

28 marzo 2008
Aggiornamenti e focus

La fretta fa il farmaco rischioso



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Esaminare la documentazione necessaria per autorizzare la vendita di un farmaco non è cosa da poco. Si richiede tempo e personale altamente specializzato. Bisogna procedere oculatamente ma, nel contempo, non si può nemmeno andare a passo di lumaca, dal momento che chi ha investito in ricerca ha giustamente voglia di cominciare a vendere. Questo è vero ovunque, e in particolare negli stati Uniti, dove la Food and Drug Administration, per un certo periodo, fu accusata di andare per le lunghe, soprattutto per carenze di personale. Di qui la promulgazione di una legge che imponeva alle aziende di pagare per il servizio di revisione, così da poter assumere nuovo personale senza gravare sullo stato. In cambio, la FDA si impegnava a rispettare un tempo massimo per l'approvazione o la bocciatura del farmaco. La norma, che si chiama Prescription Drug User Fee Act (PDUFA), entrò in vigore nel 1992 e da allora ha sollevato sempre qualche perplessità. C'è chi ritiene che abbia creato una sorta di sudditanza psicologica verso le aziende nei funzionari addetti alle revisioni. Insomma, troppa attenzione alle necessità dell'industria e meno alle questioni di sicurezza.

Casi recenti inducono al sospetto


Perplessità che sono state rinfocolate con i recenti casi dei ritiri di rofecoxib e valdecoxib e delle avvertenze sul rosiglitazone. Di qui uno studio molto accurato che ha valutato se l'accelerazione delle procedure ha effettivamente ridotto la sicurezza per il pubblico. Prima di illustrare i risultati è necessario spiegare che la legge originariamente imponeva di esaminare il 90 per cento delle nuove molecole, come si suol dire, entro 12 mesi dalla presentazione del dossier e, per le procedure accelerate, il 90% entro sei mesi. Nel 1997 si stabilì di abbassare a 10 mesi il termine per le procedure standard (ma gradualmente, per arrivare al 90% nel 2002) mentre per le procedure accelerate non cambiava nulla e tuttora questi sono i limiti in vigore.I ricercatori hanno dunque esaminato che cosa è successo in fatto di sicurezza ai farmaci approvati dopo l'introduzione della legge, paragonando il dato a quanto accedeva prima, e sono stati considerati tre tipi di inconvenienti: il ritiro del farmaco puro e semplice, il ritiro di un singolo dosaggio o formulazione, la modifica importante della avvertenze, quella chiamata black-box warning perché l'indicazione (per esempio: non somministrare in gravidanza) viene evidenziata con un riquadro nero. Inoltre i ricercatori hanno anche messo in relazione gli eventuali problemi di sicurezza con il momento in cui il farmaco ottenne l'approvazione: in pratica, se mancava poco alla scadenza dei termini o se la pratica era stata condotta per tempo.

Non è la legge la causa


Il risultato sembra confortare i critici: il numero di problemi incontrati dai farmaci approvati nei due mesi precedenti il termine fissato dalla legge è significativamente superiore; per la verità la possibilità di ritiro del farmaco si moltiplicava per 5,5, la possibilità di dover apporre un black box warning si moltiplicava per 4,4 e, infine, il ritiro di almeno un dosaggio/formulazione era 3,3 volte più probabile. In quest'ultimo caso sono stati considerati i ritiri dovuti effettivamente a ragioni di sicurezza e non altri, visto che a volte dosaggi e formulazioni vengono tolti dal mercato per ragioni differenti. Questo, però, non significa che la legge che prevede il pagamento da parte delle aziende sia sbagliata: il punto, infatti, sono le approvazioni fatte all'ultimo momento, non il fatto di porre un limite alle attese. Tanto è vero che altri studi analoghi, che però non avevano considerato se la pratica veniva svolta a ridosso della scadenza, non avevano individuato differenze tra il periodo precedente e quello successivo all'introduzione PDUFA.

Maurizio Imperiali



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