15 dicembre 2006
Aggiornamenti e focus
Infezioni trasfuse
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La variante umana della mucca pazza si può contrarre con infezioni di sangue? La domanda aleggia da un po', almeno da quando, nel 2000, uno studio di Lancet ha concluso che la malattia di Creutzfeld-Jacob (vCJD) potrebbe essere trasmessa per via trasfusionale. Nello studio i ricercatori avevano trasfuso sangue da pecore infette asintomatiche in pecore sane e una delle 19 pecore trasfuse aveva mostrato segni di malattia dopo 610 giorni. In seguito a quella pubblicazione l'associazione europea dei produttori di plasmaderivati àveva rilasciato una dichiarazione in cui precisava che nonostante fossero preliminari, i risultati avrebbero dovuto essere seriamente considerati ma non c'era ancora alcuna evidenza. In sostanza un rischio solo teorico. Ora un nuovo studio, sempre di Lancet, da maggiore concretezza all'ipotesi. Si parla, infatti, di un caso, confermato dall'autopsia, di infezione da vCJD in un gruppo di pazienti che avevano ricevuto sangue e derivati da donatori infetti. E non è il primo caso. La notizia ha generato lo status di rischio per altri 24 soggetti che hanno ricevuto una trasfusione da donatori successivamente diagnosticati con vCJD.
Non è il primo caso, si diceva, altri due casi erano già stati segnalati postmortem in Gran Bretagna. Il primo a carico di un uomo di 62 anni che ha ricevuto un'unica unità di globuli rossi, presumibilmente infetta, morto di una malattia neurologica progressiva, identificata come vCJD solo dopo la morte. L'altro caso riguarda un paziente anziano che ha ricevuto a sua volta un'unica trasfusione ed è morto, cinque anni dopo, senza chiari segnali di malattia neurologica. Il terzo caso, quello segnalato nello studio da Lancet, riguarda un giovane uomo, sempre appartenente al gruppo di trasfusi a rischio, che aveva ricevuto la trasfusione dopo complicazioni chirurgiche, uno dei donatori ha successivamente sviluppato vCJD. Ecco perché sei anni dopo la trasfusione il paziente, che ha incominciato a sviluppare i sintomi è stato segnalato alla National Prion Clinic ed è entrato in un protocollo terapeutico nel quale ha ricevuto 300 mg di quinacrina giornalieri. Nonostante la diagnosi precoce il paziente ha continuato il suo declino, fino a morire otto anni e otto mesi dopo la trasfusione. L'autopsia ha confermato la diagnosi e l'infezione prionica alle tonsille è stata evidenziata dall'autopsia. Un chiaro segnale del rischio concreto di contagio da trasfusioni infette.
Si tratta di una questione di grande rilievo come sottolinea l'editoriale a supporto del pezzo. Le evidenze che la variante umana di mucca pazza possano essere trasmesse con la trasfusione si stanno accumulando, prima con casi animali ora coi primi casi umani. E questo terzo caso rafforza ulteriormente l'ipotesi. Perciò, commenta l'editoriale, ora che si è raggiunta la certezza che le barriere di specie tra bovini e uomini impediscono la diffusione di un'epidemia, subentra questo nuovo fattore a creare un minimo allarme. Ecco perché le misure precauzionali prese nel Regno Unito sono state provvidenziali. Oggi nuove norme impediscono a chi ha precedentemente ricevuto una trasfusione di donare a sua volta il sangue. Ma altre misure potrebbero essere utili. Negli Stati Uniti e in Canada, per esempio, le donazioni di sangue non sono state accettate da soggetti che abbiano vissuto in paesi dove ci siano stati casi di encefalopatia spongiforme bovina. E questo per almeno sei mesi ora ridotti a tre. Almeno dal punto di vista della reazione legislativa, dicono i ricercatori, si tratta di una storia a lieto fine. In più, sottolineano, illustra l'importanza della diagnosi quanto più precoce possibile e dell'opportunità per il paziente di partecipare a un trial clinico terapeutico per essere pienamente coinvolto nelle implicazioni diagnostiche e per comunicare i suoi desideri al team clinico e alla sua famiglia.
Marco Malagutti
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I casi segnalati
Non è il primo caso, si diceva, altri due casi erano già stati segnalati postmortem in Gran Bretagna. Il primo a carico di un uomo di 62 anni che ha ricevuto un'unica unità di globuli rossi, presumibilmente infetta, morto di una malattia neurologica progressiva, identificata come vCJD solo dopo la morte. L'altro caso riguarda un paziente anziano che ha ricevuto a sua volta un'unica trasfusione ed è morto, cinque anni dopo, senza chiari segnali di malattia neurologica. Il terzo caso, quello segnalato nello studio da Lancet, riguarda un giovane uomo, sempre appartenente al gruppo di trasfusi a rischio, che aveva ricevuto la trasfusione dopo complicazioni chirurgiche, uno dei donatori ha successivamente sviluppato vCJD. Ecco perché sei anni dopo la trasfusione il paziente, che ha incominciato a sviluppare i sintomi è stato segnalato alla National Prion Clinic ed è entrato in un protocollo terapeutico nel quale ha ricevuto 300 mg di quinacrina giornalieri. Nonostante la diagnosi precoce il paziente ha continuato il suo declino, fino a morire otto anni e otto mesi dopo la trasfusione. L'autopsia ha confermato la diagnosi e l'infezione prionica alle tonsille è stata evidenziata dall'autopsia. Un chiaro segnale del rischio concreto di contagio da trasfusioni infette.
Fondamentale la diagnosi precoce
Si tratta di una questione di grande rilievo come sottolinea l'editoriale a supporto del pezzo. Le evidenze che la variante umana di mucca pazza possano essere trasmesse con la trasfusione si stanno accumulando, prima con casi animali ora coi primi casi umani. E questo terzo caso rafforza ulteriormente l'ipotesi. Perciò, commenta l'editoriale, ora che si è raggiunta la certezza che le barriere di specie tra bovini e uomini impediscono la diffusione di un'epidemia, subentra questo nuovo fattore a creare un minimo allarme. Ecco perché le misure precauzionali prese nel Regno Unito sono state provvidenziali. Oggi nuove norme impediscono a chi ha precedentemente ricevuto una trasfusione di donare a sua volta il sangue. Ma altre misure potrebbero essere utili. Negli Stati Uniti e in Canada, per esempio, le donazioni di sangue non sono state accettate da soggetti che abbiano vissuto in paesi dove ci siano stati casi di encefalopatia spongiforme bovina. E questo per almeno sei mesi ora ridotti a tre. Almeno dal punto di vista della reazione legislativa, dicono i ricercatori, si tratta di una storia a lieto fine. In più, sottolineano, illustra l'importanza della diagnosi quanto più precoce possibile e dell'opportunità per il paziente di partecipare a un trial clinico terapeutico per essere pienamente coinvolto nelle implicazioni diagnostiche e per comunicare i suoi desideri al team clinico e alla sua famiglia.
Marco Malagutti
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