Predisposti per natura

10 novembre 2006
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L'influenza, si sa, colpisce nei mesi freddi perché è favorita da fattori quali la permanenza al chiuso in ambienti affollati, il contagio attraverso i bambini che vanno a scuola, la bassa umidità relativa che aiuta la diffusione dei virus tramite aerosol. Ma alla luce delle ultime ricerche questo tipo di spiegazioni sarebbe troppo semplicistico, vale a dire che c'è dell'altro oltre a questo. La stagionalità dell'infezione dipenderebbe, infatti, da un altro elemento chiave, la minore esposizione alla luce solare, forse per via del deficit di vitamina D; non soltanto, potrebbero essere coinvolti geni che determinano una maggiore o minore fragilità, verificata per ora nei topi da esperimento.
Si tratta di due nuovi fronti d'indagine, in realtà uno riproposto dopo un quarto di secolo e l'altro nato da studi relativi a passate epidemie, sostenuti ora da ricerche specifiche e che in qualche modo spostano l'attenzione dal virus e dai fattori che li rendono più pericolosi, ai loro ospiti umani a ai meccanismi che ne causano la vulnerabilità.

C'entrano le citochine pro-infiammatorie


L'idea di un collegamento tra l'infezione e la scarsa irradiazione solare d'inverno era stata avanzata nel 1981 dall'epidemiologo britannico Edgar Hope-Simpson (e allora snobbata), osservato che il culmine dell'influenza e delle sue pandemie si ha sempre dopo il solstizio invernale. Un sospetto supportato in seguito dalle evidenze sulla minore sintesi cutanea stagionale di vitamina D, sul suo ruolo come modulatore della risposta immunitaria, contrastando l'espressione delle citochine pro-infiammatorie, e sulla sua stimolazione di peptidi anti-agenti infettivi presenti nei neutrofili, nei monociti, nel linfociti. L'ipotesi è stata ripresa da autori statunitensi in una ricerca nella quale hanno inoculato d'estate o d'inverno virus influenzali attenuati in volontari sani di San Pietroburgo. La probabilità di contrarre l'infezione è risultata otto volte più elevata nel periodo invernale. Secondo Cannell questo dipende dalla vitamina D, in base ad altri studi che hanno mostrato come la sua carenza predisponga a infezioni respiratorie mentre la supplementazione ne riduce l'incidenza, e come l'olio di fegato di merluzzo (ricco di vitamina D), analogamente all'irradiazione ultravioletta solare o artificiale, diminuisca le infezioni respiratorie virali nell'adulto. E fa notare che già pochi minuti dopo l'esposizione solare vengono sintetizzati circa 500 microgrammi di vitamina D, un aumento rapido che fa pensare ad altre funzioni oltre alla regolazione del calcio nelle ossa, come un importante ruolo immunitario. Tuttavia è presto, precisa l'autore, per raccomandare una somministrazione invernale di vitamina D a fini preventivi antinfluenzali, e andrebbero comunque stabilite le dosi.

Risposte diverse


Altre due ricerche presentate al convegno annuale della Società Americana di Fisiologia suggeriscono invece che la variabilità individuale nel contrarre l'infezione abbia componenti genetiche. L'osservazione di partenza è che i casi più gravi e addirittura mortali d'influenza si verificano di solito nei soggetti più giovani o più anziani, ma con eccezioni come la famosa pandemia "Spagnola" che nel 1918 uccise dai 20 ai 40 milioni di persone nel mondo, compresi molti giovani adulti sani, o i recenti focolai epidemici di "Aviaria", la forma da virus H5N1 trasmessa dagli uccelli, che ha riguardato sempre soggetti giovani. Le persone in queste fasce d'età e sane sono in condizione di sviluppare una forte risposta immunitaria che può provocare una marcata infiammazione a livello polmonare. Nel primo studio, eseguito come l'altro alla Southern Illinois University di Springfield, si sono infettati con virus influenzali due ceppi di topi con diversi profili genetici: il tipo B, di cui sono morti metà degli esemplari, e il tipo C, di cui è morto solo il 10%. Si è verificato che nel tipo B (suscettibili) rispetto al C (resistente) erano significativamente più elevate le citochine pro-infiammatorie tranne una, cioè quelle che normalmente agiscono per prime per eliminare l'agente patogeno. Nel secondo studio si è trovato che nei ceppi tipo B erano 24 volte più elevati rispetto ai controlli, e nel tipo C solo tre volte, i livelli di RNA messaggero (mRna) legati alla risposta immunitaria, cioè le molecole che trasferiscono le informazioni del DNA nelle relative proteine. Occorrerà ora identificare i geni che controllano le variazioni nell'infiammazione durante l'influenza: l'obiettivo, soprattutto rispetto alle pandemie future prospettate dopo la comparsa dell'Aviaria, è scoprire gli individui più suscettibili e che potrebbero avvantaggiarsi di più delle terapie antivirali.

Elettra Vecchia



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