16 febbraio 2007
Aggiornamenti e focus
Meglio in combinazione
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Ci risiamo. Puntuale come ogni anno si ripresenta, in concomitanza con l’inverno, l’allarme influenzale, che da un paio d’anni a questa parte annovera anche il rischio di pandemia da influenza aviaria. Del resto la stessa Organizzazione mondiale della sanità, a inizio anno, ha invitato a tenere alta la guardia perché teme una recrudescenza mondiale del virus, e i primi casi registrati in Asia dall’inizio dell’anno ne sarebbero la prova. Le contromisure? Sembrerebbero pronte. O meglio l’Italia è stato uno dei primi paesi a dotarsi di un piano pandemico per l’influenza aviaria: dal punto di vista della vigilanza veterinaria, infatti, esiste un efficiente livello di organizzazione e una puntuale strategia di risposta operativa dei servizi rispetto all’eventualità di una nuova crisi da influenza aviaria. Ma esiste anche un lato dolente. Il piano pandemico prevede la dotazione di una scorta nazionale-regionale di farmaci antivirali. E l’Oms prevede una copertura di antivirali pari al 25-30% della popolazione, mentre a oggi l’Italia riesce a garantire una copertura di poco più del 6%. Questo almeno stando alle recenti dichiarazioni di Walter Pasini, direttore del centro collaboratore dell’Organizzazione mondiale della sanità per la Medicina del turismo. Il governo dal canto suo, per bocca del sottosegretario alla Salute Giampaolo Patta, assicura che l’Italia si è dotata di 40 milioni di dosi di antivirali. E negli altri paesi? In testa alla classifica c’è la Francia, con una copertura pari al 55% della popolazione. In Gran Bretagna l’allarme aviaria ha fatto scattare stringenti misure di sicurezza con un aumento fino a sei volte delle proprie scorte di antivirali. E proprio della questione antivirali e delle loro scorte si è occupato uno studio del British Medical Journal.
“Il punto critico sta nel fatto che potrebbero passare anche sei mesi dallo scoppio della pandemia per poter disporre del “vaccino pandemico” e che esso non avrebbe alcun effetto prima di un mese dalla sua inoculazione. Nel frattempo, le uniche possibilità per fronteggiare l’epidemia sarebbero i provvedimenti di sanità pubblica e l’impiego di farmaci antivirali, efficaci solo se somministrati entro 48 ore dall’inizio dei sintomi. Da qui, il problema dell’accesso alla limitata quantità di scorte e la necessità di poter disporre immediatamente del farmaco”. Questa la situazione sintetizzata da Giampiero Carosi, Direttore dell’Istituto di Malattie Infettive e Tropicali degli Spedali Civili di Brescia, in un recente convegno organizzato dal Cergas a Milano. I farmaci antivirali potrebbero, perciò, rappresentare un’importante arma per prevenire l’insorgenza della malattia, combattere l’infezione e/o ridurre i sintomi e le complicanze. Le classi di farmaci antivirali disponibili sono due: gli inibitori M2 (amantadina e rimantadina), attivi solo sul virus A e gli inibitori della neuroaminidasi (oseltamivir e zanamivir), attivi sul virus A e B e sul virus aviario. Il fatto è, secondo l’editoriale del Bmj che gli inibitori M2 non vengono tenuti di scorta in prospettiva di una possibile pandemia. E questo in virtù sia dei loro effetti collaterali sia del rapido manifestarsi di resistenza. Per di più senza che sia stata dimostrata una riduzione nella trasmissione e nella patogenicità. Il parere sembra univoco, dai Cdc ai medici infettivologi, nel non considerare questi farmaci come potenziali trattamenti di prima scelta per l’influenza. Ma l’editoriale invita a riconsiderare la cosa. Le ragioni? Innanzitutto l’imprevedibilità della suscettibilità antivirale a nuovi ceppi, poi le ragioni economiche e infine le ragioni di stabilità chimica. Per cominciare, infatti, non si può sapere come evolva un nuovo ceppo influenzale, e la resistenza all’antivirale dipende da specifici polimorfismi genetici. Inoltre non si può escludere una futura resistenza anche agli inibitori della neuroaminidasi, in virtù del loro aumentato utilizzo. La soluzione potrebbe così essere la combinazione dei farmaci antivirali, che potrebbe ridurre la resistenza e agire sinergicamente contro i virus. Inoltre la combinazione favorirebbe un minor uso degli inibitori M2 con minori effetti collaterali conseguenti. Occorrono perciò trial, continua l’editoriale, che confermino questa ipotesi. Per di più si tratta di farmaci meno costosi e i costi aggiuntivi per eventuali scorte sarebbero complessivamente modesti. Ma proprio gli aspetti economici potrebbero essere un disincentivo per le aziende. Eppure ci sono paesi che già ne stanno facendo scorte, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna. Gli antivirali non costituiscono l’unico mezzo di contenimento degli effetti della pandemia, conclude l’editoriale, ma potrebbero rivestire un ruolo importante. Perché non verificarne l’efficacia in combinazione?
Marco Malagutti
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Un’arma importante
“Il punto critico sta nel fatto che potrebbero passare anche sei mesi dallo scoppio della pandemia per poter disporre del “vaccino pandemico” e che esso non avrebbe alcun effetto prima di un mese dalla sua inoculazione. Nel frattempo, le uniche possibilità per fronteggiare l’epidemia sarebbero i provvedimenti di sanità pubblica e l’impiego di farmaci antivirali, efficaci solo se somministrati entro 48 ore dall’inizio dei sintomi. Da qui, il problema dell’accesso alla limitata quantità di scorte e la necessità di poter disporre immediatamente del farmaco”. Questa la situazione sintetizzata da Giampiero Carosi, Direttore dell’Istituto di Malattie Infettive e Tropicali degli Spedali Civili di Brescia, in un recente convegno organizzato dal Cergas a Milano. I farmaci antivirali potrebbero, perciò, rappresentare un’importante arma per prevenire l’insorgenza della malattia, combattere l’infezione e/o ridurre i sintomi e le complicanze. Le classi di farmaci antivirali disponibili sono due: gli inibitori M2 (amantadina e rimantadina), attivi solo sul virus A e gli inibitori della neuroaminidasi (oseltamivir e zanamivir), attivi sul virus A e B e sul virus aviario. Il fatto è, secondo l’editoriale del Bmj che gli inibitori M2 non vengono tenuti di scorta in prospettiva di una possibile pandemia. E questo in virtù sia dei loro effetti collaterali sia del rapido manifestarsi di resistenza. Per di più senza che sia stata dimostrata una riduzione nella trasmissione e nella patogenicità. Il parere sembra univoco, dai Cdc ai medici infettivologi, nel non considerare questi farmaci come potenziali trattamenti di prima scelta per l’influenza. Ma l’editoriale invita a riconsiderare la cosa. Le ragioni? Innanzitutto l’imprevedibilità della suscettibilità antivirale a nuovi ceppi, poi le ragioni economiche e infine le ragioni di stabilità chimica. Per cominciare, infatti, non si può sapere come evolva un nuovo ceppo influenzale, e la resistenza all’antivirale dipende da specifici polimorfismi genetici. Inoltre non si può escludere una futura resistenza anche agli inibitori della neuroaminidasi, in virtù del loro aumentato utilizzo. La soluzione potrebbe così essere la combinazione dei farmaci antivirali, che potrebbe ridurre la resistenza e agire sinergicamente contro i virus. Inoltre la combinazione favorirebbe un minor uso degli inibitori M2 con minori effetti collaterali conseguenti. Occorrono perciò trial, continua l’editoriale, che confermino questa ipotesi. Per di più si tratta di farmaci meno costosi e i costi aggiuntivi per eventuali scorte sarebbero complessivamente modesti. Ma proprio gli aspetti economici potrebbero essere un disincentivo per le aziende. Eppure ci sono paesi che già ne stanno facendo scorte, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna. Gli antivirali non costituiscono l’unico mezzo di contenimento degli effetti della pandemia, conclude l’editoriale, ma potrebbero rivestire un ruolo importante. Perché non verificarne l’efficacia in combinazione?
Marco Malagutti
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