24 febbraio 2006
Aggiornamenti e focus
Uno studio a prova di bomba
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Perché il calcio rappresenti un fattore di rischio per la sclerosi laterale amiotrofica (Sla) rimane un mistero. A fare un po' di luce in più sull'argomento, però, è arrivato nel marzo scorso uno studio, condotto da Adriano Chiò, professore nel dipartimento di neuroscienze dell'Università di Torino, che tuttora rappresenta il riferimento sull'argomento. I risultati continuano a preoccupare, i calciatori italiani correrebbero un rischio sei volte superiore di contrarre la malattia rispetto alla popolazione generale. Ma come nasce lo studio? Lo abbiamo chiesto direttamente al professor Chiò.
"Lo studio nasce dal precedente di Guariniello, che di recente si è occupato dell'uso di farmaci dopanti tra i calciatori del campionato italiano, che aveva già portato a un risultato eclatante" - risponde il neurologo torinese. Va ricordato, infatti, che lo studio epidemiologico, condotto su un campione di 24 mila calciatori che hanno giocato tra gli anni '60 e il 1996, aveva evidenziato un'incidenza della malattia cinque volte superiore rispetto alla popolazione generale, con un'età media dei casi, intorno ai 40 anni, significativamente più bassa della media in generale. "Già - riprende Chiò - ma il procuratore non è un epidemiologo, abbiamo perciò progettato un nuovo studio che riesaminasse la situazione, per vedere se i risultati venivano confermati. Va detto che le premesse sono piuttosto complesse, visto che abbiamo a che fare con un problema sia legale sia scientifico, e che della malattia si sa ancora molto poco. Siamo partiti così dai dati disponibili e abbiamo delineato uno studio il più possibile rigoroso e rigido, in modo da poter ovviare alle eventuali critiche, con l'obiettivo ambizioso di realizzare uno studio a prova di bomba". E ce l'avete fatta? "I risultati sono sicuramente sorprendenti e per certi versi inquietanti. Ci abbiamo lavorato un anno e mezzo. A maggio era già terminato, ma serviva l'"imprimatur" legale, viste le implicazioni note". Lo studio, va ricordato, ha preso in considerazione tutti i calciatori professionisti italiani, che abbiano giocato almeno una partita ufficiale tra il 1970 e il 2002. Oltre 7000 atleti. Parlava di risultati sorprendenti, cioè? "Innanzitutto è stato confermato un aumento del rischio di Sla in una categoria specifica, per qualche fattore di rischio che per il momento sfugge. In più in un'età molto più giovane rispetto alla media generale". Il rischio, infatti, è cinque volte superiore e l'età è di 41 anni, mentre l'età di insorgenza è tradizionalmente attorno ai 60. Ma non è finita qui, vero? "No - risponde Chiò - è stato riscontrato anche, e questa è una novità, un rapporto dose/effetto, cioè più si gioca più il rischio di ammalarsi aumenta". Ma perché esiste questa relazione tra calcio e Sla?
"Non è ancora chiaro - dice il responsabile della ricerca - si formulano ipotesi sulla base delle quali partiranno studi paralleli. Una delle ipotesi è quella traumatica. Il fatto cioè che i calciatori siano sottoposti più spesso a incidenti che riguardano il capo. Poi un'altra possibilità è legata all'assunzione prolungata di sostanze dopanti o di farmaci in dosi superiori a quelle normali, un aspetto da cui il calcio non è esente". E perché non si verifica in altre discipline sportive, come il ciclismo per esempio, con la stessa incidenza? "Una possibilità può essere che si ricorra nei diversi sport a sostanze diverse" - sostiene Chiò. "Le discipline sportive Non sono uguali e approfondendo si scoprono differenze notevoli. Un aspetto da non sottovalutare, per esempio, riguarda lo stress, sia fisico sia psichico, cui sono sottoposti i calciatori. Non va dimenticato, infatti, che, in rapporto agli altri sport, rappresentano un patrimonio di denaro ragguardevole". Lo studio, però, va dal 1970 al 2001. Le cose in questo lasso di tempo dovrebbero essere cambiate. O no? "Le cose sono sicuramente cambiate e tra l'altro l'incidenza della malattia è "spalmata" su tutto il periodo in modo uniforme. Questo è uno degli aspetti da approfondire". Ma torniamo alle possibili cause, ne manca qualcuna? "Sì, una delle più datate - risponde - riguarda la presenza di sostanze tossiche esogene, diserbanti e fertilizzanti, sul terreno di gioco. Un'ipotesi che risale a uno studio americano condotto dopo la morte di tre giocatori di football". E prevale qualche ipotesi sulle altre? "Non direi, anzi non è da escludere la compartecipazione di più fattori. Del resto l'organismo umano è una struttura complessa, non un'insieme di parti separate. Anche la predisposizione genetica gioca il suo ruolo probabilmente. E' la cosiddetta interazione tra genetica e ambiente. Alcuni soggetti hanno geni che li proteggono, altri no. E' la ragione per cui, per esempio, non tutti i fumatori si ammalano di tumore al polmone".
Se la federazione collaborasse
Una curiosità in conclusione. Perché studi del genere si svolgono in Italia e meno negli altri paesi? Potere del pallone? "Credo che la molla scatenante sia stato l'interesse suscitato dall'indagine di Guariniello - risponde il neurologo torinese. Però anche in Gran Bretagna sono stati riscontrati dei casi, uno di un nazionale scozzese, come ho appreso a un recente convegno. Ma non arrivati fino ai mass media. E' in partenza, comunque, uno studio analogo al nostro in Germania. Si tratta di un fatto importante che ci permetterà di capire se il fenomeno sia italiano, e quindi legato a specifiche sostanze utilizzate o a metodi di allenamento peculiari. Oppure se sia legato specificamente al calcio. Lo studio tedesco, però, va detto - conclude Chiò - è stato promosso dalla federazione calcio tedesca. Quella italiana, invece, non ha collaborato molto, forse per le implicazioni legali dello studio. Ma l'indagine di Guariniello non andrebbe vissuta come punitiva, bensì come il tentativo di comprendere un fenomeno. D'altro canto la federazione basket si è dimostrata apertissima e ha immediatamente aderito alla nostra richiesta di materiale, quando gli è stato richiesto". Il puzzle è tutt'altro che ricomposto, ma i passi avanti sono considerevoli e la ricerca è sicuramente in buone mani.
Marco Malagutti
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Come si è svolto lo studio
"Lo studio nasce dal precedente di Guariniello, che di recente si è occupato dell'uso di farmaci dopanti tra i calciatori del campionato italiano, che aveva già portato a un risultato eclatante" - risponde il neurologo torinese. Va ricordato, infatti, che lo studio epidemiologico, condotto su un campione di 24 mila calciatori che hanno giocato tra gli anni '60 e il 1996, aveva evidenziato un'incidenza della malattia cinque volte superiore rispetto alla popolazione generale, con un'età media dei casi, intorno ai 40 anni, significativamente più bassa della media in generale. "Già - riprende Chiò - ma il procuratore non è un epidemiologo, abbiamo perciò progettato un nuovo studio che riesaminasse la situazione, per vedere se i risultati venivano confermati. Va detto che le premesse sono piuttosto complesse, visto che abbiamo a che fare con un problema sia legale sia scientifico, e che della malattia si sa ancora molto poco. Siamo partiti così dai dati disponibili e abbiamo delineato uno studio il più possibile rigoroso e rigido, in modo da poter ovviare alle eventuali critiche, con l'obiettivo ambizioso di realizzare uno studio a prova di bomba". E ce l'avete fatta? "I risultati sono sicuramente sorprendenti e per certi versi inquietanti. Ci abbiamo lavorato un anno e mezzo. A maggio era già terminato, ma serviva l'"imprimatur" legale, viste le implicazioni note". Lo studio, va ricordato, ha preso in considerazione tutti i calciatori professionisti italiani, che abbiano giocato almeno una partita ufficiale tra il 1970 e il 2002. Oltre 7000 atleti. Parlava di risultati sorprendenti, cioè? "Innanzitutto è stato confermato un aumento del rischio di Sla in una categoria specifica, per qualche fattore di rischio che per il momento sfugge. In più in un'età molto più giovane rispetto alla media generale". Il rischio, infatti, è cinque volte superiore e l'età è di 41 anni, mentre l'età di insorgenza è tradizionalmente attorno ai 60. Ma non è finita qui, vero? "No - risponde Chiò - è stato riscontrato anche, e questa è una novità, un rapporto dose/effetto, cioè più si gioca più il rischio di ammalarsi aumenta". Ma perché esiste questa relazione tra calcio e Sla?
Traumi, farmaci o pesticidi
"Non è ancora chiaro - dice il responsabile della ricerca - si formulano ipotesi sulla base delle quali partiranno studi paralleli. Una delle ipotesi è quella traumatica. Il fatto cioè che i calciatori siano sottoposti più spesso a incidenti che riguardano il capo. Poi un'altra possibilità è legata all'assunzione prolungata di sostanze dopanti o di farmaci in dosi superiori a quelle normali, un aspetto da cui il calcio non è esente". E perché non si verifica in altre discipline sportive, come il ciclismo per esempio, con la stessa incidenza? "Una possibilità può essere che si ricorra nei diversi sport a sostanze diverse" - sostiene Chiò. "Le discipline sportive Non sono uguali e approfondendo si scoprono differenze notevoli. Un aspetto da non sottovalutare, per esempio, riguarda lo stress, sia fisico sia psichico, cui sono sottoposti i calciatori. Non va dimenticato, infatti, che, in rapporto agli altri sport, rappresentano un patrimonio di denaro ragguardevole". Lo studio, però, va dal 1970 al 2001. Le cose in questo lasso di tempo dovrebbero essere cambiate. O no? "Le cose sono sicuramente cambiate e tra l'altro l'incidenza della malattia è "spalmata" su tutto il periodo in modo uniforme. Questo è uno degli aspetti da approfondire". Ma torniamo alle possibili cause, ne manca qualcuna? "Sì, una delle più datate - risponde - riguarda la presenza di sostanze tossiche esogene, diserbanti e fertilizzanti, sul terreno di gioco. Un'ipotesi che risale a uno studio americano condotto dopo la morte di tre giocatori di football". E prevale qualche ipotesi sulle altre? "Non direi, anzi non è da escludere la compartecipazione di più fattori. Del resto l'organismo umano è una struttura complessa, non un'insieme di parti separate. Anche la predisposizione genetica gioca il suo ruolo probabilmente. E' la cosiddetta interazione tra genetica e ambiente. Alcuni soggetti hanno geni che li proteggono, altri no. E' la ragione per cui, per esempio, non tutti i fumatori si ammalano di tumore al polmone".
Se la federazione collaborasse
Una curiosità in conclusione. Perché studi del genere si svolgono in Italia e meno negli altri paesi? Potere del pallone? "Credo che la molla scatenante sia stato l'interesse suscitato dall'indagine di Guariniello - risponde il neurologo torinese. Però anche in Gran Bretagna sono stati riscontrati dei casi, uno di un nazionale scozzese, come ho appreso a un recente convegno. Ma non arrivati fino ai mass media. E' in partenza, comunque, uno studio analogo al nostro in Germania. Si tratta di un fatto importante che ci permetterà di capire se il fenomeno sia italiano, e quindi legato a specifiche sostanze utilizzate o a metodi di allenamento peculiari. Oppure se sia legato specificamente al calcio. Lo studio tedesco, però, va detto - conclude Chiò - è stato promosso dalla federazione calcio tedesca. Quella italiana, invece, non ha collaborato molto, forse per le implicazioni legali dello studio. Ma l'indagine di Guariniello non andrebbe vissuta come punitiva, bensì come il tentativo di comprendere un fenomeno. D'altro canto la federazione basket si è dimostrata apertissima e ha immediatamente aderito alla nostra richiesta di materiale, quando gli è stato richiesto". Il puzzle è tutt'altro che ricomposto, ma i passi avanti sono considerevoli e la ricerca è sicuramente in buone mani.
Marco Malagutti
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