31 ottobre 2007
Aggiornamenti e focus
Il chirurgo non è tutto
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Recentemente alcuni studi hanno dimostrato che i centri, caratterizzati da un elevato numero di prestazioni di un certo tipo, per esempio gli interventi chirurgici per il carcinoma della mammella, potevano vantare risultati migliori ai fini della sopravvivenza delle pazienti. Questi studi si sono occupati in larga maggioranza proprio del tumore della mammella perché ben si presta a un'analisi di tutte le caratteristiche: esistono definizioni precise dello stadio della malattia, esistono metodiche ben definite.
In base a queste indagini, risultava dunque che la mortalità, nelle donne operate da chirurghi che ogni anno fanno un numero elevato di interventi, hanno una mortalità minore. Questo, ricorda uno studio di recentissima pubblicazione, ha influenzato molto, almeno negli Stati Uniti, le politiche di regionalizzazione dei servizi, soprattutto nel senso di concentrare l'erogazione delle prestazioni. Questo studio, però, ha messo in discussione il fatto che quanto più un senologo opera, tanto meno le donne muoiano a causa del cancro. Infatti, per la prima volta ha valutato in quale proporzione le donne trattate morivano di più o di meno per tumore della mammella o per altre cause. Questo perché se la minore mortalità era da attribuirsi solo all'abilità nel trattare questa malattia, non ci sarebbe dovuto essere un rapporto tra il numero di prestazioni annue e la mortalità delle pazienti a causa, per esempio, di un infarto.
Per vedere come stavano le cose, i ricercatori hanno esaminato le diagnosi, gli interventi subiti e le caratteristiche sociodemografiche di 12216 donne di età superiore ai 65 anni, operate da 1856 chirurghi differenti, di cui 1325 a basso volume di prestazioni (meno di 5 casi/anno), 384 con un volume medio (da 5 a 9 casi/anno) e 147 con un volume alto (10 e più casi/anno). Anche il numero di casi era riferito alla fascia di età dai 65 in su, visto che si tratta di quella assistita dal programma federale Medicare, che ha fornito i dati.
Confrontando le caratteristiche delle pazienti con il livello di attività dei medici, le uniche differenze significative erano che quelle trattate dai medici molto attivi erano più facilmente bianche e risiedevano in quartiere più ricchi; inoltre, avevano minori comorbidità (cioè altre malattie diverse dal cancro) e le lesioni mammarie erano di 1-2 mm più piccole. Nei 50 mesi di durata dello studio sono decedute 2753 pazienti (22,5%), 760 (6,2%) a causa del tumore mammario, le altre per cause diverse, prevalentemente cardiovascolari. L'analisi in funzione del volume di attività del chirurgo deponevano per una differenza di 18,7 decessi per mille pazienti anno, a vantaggio dei chirurghi più attivi rispetto a quelli con un basso volume di prestazioni. Però questa differenza era rappresentata da 14,3 decessi per tutte le cause in meno e da soltanto 4,4 decessi per tumore in meno. Insomma, se si trattasse soltanto dell'abilità a trattare il tumore mammario, non ci sarebbe dovuta essere differenza tra i due gruppi per quanto riguarda la mortalità per cause diverse. Procedendo a un'analisi più sofisticata, si confermava che essere prese in carico da un chirurgo significava rischiare di meno ma, ed è importante, non per differenze in termini morte per cancro, che erano significative, ma per la morte dovuta ad altre cause. In altre parole, e con meno numeri: non è l'esito del tumore della mammella a fare la differenza.
Questo può significare tante cose: per esempio, che ormai l'intervento di mastectomia, totale o parziale, è ben padroneggiato da tutti i chirurghi del settore e che a fare la differenza è lo stadio in cui viene intercettata la malattia (meno grave). Il fatto che però la mortalità generale si riduca può essere spiegato in molti modi. Uno è che il chirurgo molto attivo abbia a sua volta colleghi altrettanto attivi cui rimandare la paziente per i problemi di cuore, per esempio. Oppure può significare che a rivolgersi a questi chirurghi siano soprattutto le pazienti più informate, attente alla salute in generale e, di converso, benestanti. Altri studi hanno dimostrato, infatti e forse non ce n'era bisogno, che cattive condizioni socioeconomiche si associano a una maggiore mortalità per tutte le cause. Gli autori della ricerca non prospettano conclusioni certe, visto il gran numero di fattori in gioco, ma richiama l'attenzione sul fatto che quando si attribuisce un peso predominante all'abilità del singolo centro di eccellenza nel determinare esiti migliori per i pazienti si rischia di non vedere altri aspetti.
Maurizio Imperiali
Salute oggi:
...e inoltre su Dica33:
In base a queste indagini, risultava dunque che la mortalità, nelle donne operate da chirurghi che ogni anno fanno un numero elevato di interventi, hanno una mortalità minore. Questo, ricorda uno studio di recentissima pubblicazione, ha influenzato molto, almeno negli Stati Uniti, le politiche di regionalizzazione dei servizi, soprattutto nel senso di concentrare l'erogazione delle prestazioni. Questo studio, però, ha messo in discussione il fatto che quanto più un senologo opera, tanto meno le donne muoiano a causa del cancro. Infatti, per la prima volta ha valutato in quale proporzione le donne trattate morivano di più o di meno per tumore della mammella o per altre cause. Questo perché se la minore mortalità era da attribuirsi solo all'abilità nel trattare questa malattia, non ci sarebbe dovuto essere un rapporto tra il numero di prestazioni annue e la mortalità delle pazienti a causa, per esempio, di un infarto.
Uno studio sulle over 65
Per vedere come stavano le cose, i ricercatori hanno esaminato le diagnosi, gli interventi subiti e le caratteristiche sociodemografiche di 12216 donne di età superiore ai 65 anni, operate da 1856 chirurghi differenti, di cui 1325 a basso volume di prestazioni (meno di 5 casi/anno), 384 con un volume medio (da 5 a 9 casi/anno) e 147 con un volume alto (10 e più casi/anno). Anche il numero di casi era riferito alla fascia di età dai 65 in su, visto che si tratta di quella assistita dal programma federale Medicare, che ha fornito i dati.
Confrontando le caratteristiche delle pazienti con il livello di attività dei medici, le uniche differenze significative erano che quelle trattate dai medici molto attivi erano più facilmente bianche e risiedevano in quartiere più ricchi; inoltre, avevano minori comorbidità (cioè altre malattie diverse dal cancro) e le lesioni mammarie erano di 1-2 mm più piccole. Nei 50 mesi di durata dello studio sono decedute 2753 pazienti (22,5%), 760 (6,2%) a causa del tumore mammario, le altre per cause diverse, prevalentemente cardiovascolari. L'analisi in funzione del volume di attività del chirurgo deponevano per una differenza di 18,7 decessi per mille pazienti anno, a vantaggio dei chirurghi più attivi rispetto a quelli con un basso volume di prestazioni. Però questa differenza era rappresentata da 14,3 decessi per tutte le cause in meno e da soltanto 4,4 decessi per tumore in meno. Insomma, se si trattasse soltanto dell'abilità a trattare il tumore mammario, non ci sarebbe dovuta essere differenza tra i due gruppi per quanto riguarda la mortalità per cause diverse. Procedendo a un'analisi più sofisticata, si confermava che essere prese in carico da un chirurgo significava rischiare di meno ma, ed è importante, non per differenze in termini morte per cancro, che erano significative, ma per la morte dovuta ad altre cause. In altre parole, e con meno numeri: non è l'esito del tumore della mammella a fare la differenza.
Un risultato inaspettato
Questo può significare tante cose: per esempio, che ormai l'intervento di mastectomia, totale o parziale, è ben padroneggiato da tutti i chirurghi del settore e che a fare la differenza è lo stadio in cui viene intercettata la malattia (meno grave). Il fatto che però la mortalità generale si riduca può essere spiegato in molti modi. Uno è che il chirurgo molto attivo abbia a sua volta colleghi altrettanto attivi cui rimandare la paziente per i problemi di cuore, per esempio. Oppure può significare che a rivolgersi a questi chirurghi siano soprattutto le pazienti più informate, attente alla salute in generale e, di converso, benestanti. Altri studi hanno dimostrato, infatti e forse non ce n'era bisogno, che cattive condizioni socioeconomiche si associano a una maggiore mortalità per tutte le cause. Gli autori della ricerca non prospettano conclusioni certe, visto il gran numero di fattori in gioco, ma richiama l'attenzione sul fatto che quando si attribuisce un peso predominante all'abilità del singolo centro di eccellenza nel determinare esiti migliori per i pazienti si rischia di non vedere altri aspetti.
Maurizio Imperiali
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