20 settembre 2006
Aggiornamenti e focus
Ricerche pubblicate, se favorevoli
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L'uso dei farmaci nei bambini è un tema delicato, e questa delicatezza è dovuta sopratutto all'assenza di studi su questa particolare popolazione. Gli studi costano, il mercato dei più piccoli è relativamente ristretto, e le aziende non hanno quindi convenienza a condurli. Anche perché poi, alla fine, anche senza indicazioni specifiche il farmaco viene prescritto le stesso visto che non ci sono alternative. Per ovviare a questa situazione negli Stati Uniti, nel 1997. venne istituita la cosiddetta "pediatric exclusivity", in base alla quale l'FDA era autorizzata a prolungare il brevetto di una specialità se venivano condotti studi dedicati ai bambini. Estendere la durata del brevetto significa, come ormai dovrebbe essere noto, mettere al riparo il medicinale dalla concorrenza dei generici. Recentemente, anche l'Unione Europea ha avviato un provvedimento simile.
Resta da vedere se il sistema di premi funziona. Sul piano numerico, dal 1998 al 2004 sono stati condotti 253 studi di questi tipo: alcuni per valutare l'efficacia del farmaco (il 50%) altri per valutare le dosi da impiegare, altri, la minoranza, per valutare la sicurezza nei bambini (il 17%). Questi studi non hanno avuto tutti esito positivo: nella metà dei casi (127 studi) è stato documentato positivamente l'impiego nei bambini, negli altri no. E' il caso di aggiungere che l'incentivo viene concesso indipendentemente dal fatto che l'esito dello studio sia positivo: è giusto, perché anche sapere che un farmaco non va prescritto ai più giovani è un'informazione preziosa. Informazione: il punto è proprio questo. Infatti, uno studio è in generale utile se poi viene divulgato, altrimenti, se è tenuto in un cassetto perde molto del suo valore. A questo aspetto si è dedicato un gruppo di ricerca del Duke Clinical Research Institute, che ha controllato quanti di questi studi, comunque sottoposti all'FDA, sono poi stati divulgati attraverso la pubblicazione.
Il risultato nudo e crudo è che soltanto il 45% degli studi è stato pubblicato sulle riviste peer reviewed, cioè quelle con un comitato che giudica l'idoneità alla pubblicazione, cioè quelle che contano realmente. Inoltre, è stato rilevato che la pubblicazione riguarda soprattutto gli studi con esito positivo e soprattutto quelli che puntavano all'efficacia e non alla sicurezza. Anzi, mentre per alcuni farmaci sono stati pubblicati tutti gli studi condotti ai fini dell'uso pediatrico, per parecchi altri con problemi di sicurezza non ne è stato pubblicato nessuno. In totale, soltanto il 26 per cento degli studi che affrontavano la sicurezza di impiego è stato pubblicato. L'analisi entra poi in ulteriori dettagli, ma il senso non cambia: gli studi si fanno per ottenere l'allungamento del brevetto, ma se il risultato non è gran cosa, si preferisce non dargli troppa pubblicità. Gli autori ritengono che questo possa essere dovuto anche al fatto che non sono previsti ulteriori incentivi per la pubblicazione, che è una visione molto americana, ma aggiungono che si potrebbe vincolare l'allungamento del brevetto non soltanto alla realizzazione dello studio, ma anche alla sua pubblicazione. In fin dei conti, si stima che la "pediatric exclusivity" sia costata, in termini di ritardo nell'arrivo dei più economici generici, 14 miliardi di dollari. Dal punto di vista europeo e statalista ci si potrebbe chiedere perché gli studi, tutti, non li divulghi, a 360 gradi, l'FDA...
Maurizio Imperiali
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...e inoltre su Dica33:
Esito positivo solo per la metà
Resta da vedere se il sistema di premi funziona. Sul piano numerico, dal 1998 al 2004 sono stati condotti 253 studi di questi tipo: alcuni per valutare l'efficacia del farmaco (il 50%) altri per valutare le dosi da impiegare, altri, la minoranza, per valutare la sicurezza nei bambini (il 17%). Questi studi non hanno avuto tutti esito positivo: nella metà dei casi (127 studi) è stato documentato positivamente l'impiego nei bambini, negli altri no. E' il caso di aggiungere che l'incentivo viene concesso indipendentemente dal fatto che l'esito dello studio sia positivo: è giusto, perché anche sapere che un farmaco non va prescritto ai più giovani è un'informazione preziosa. Informazione: il punto è proprio questo. Infatti, uno studio è in generale utile se poi viene divulgato, altrimenti, se è tenuto in un cassetto perde molto del suo valore. A questo aspetto si è dedicato un gruppo di ricerca del Duke Clinical Research Institute, che ha controllato quanti di questi studi, comunque sottoposti all'FDA, sono poi stati divulgati attraverso la pubblicazione.
La sicurezza trascurata
Il risultato nudo e crudo è che soltanto il 45% degli studi è stato pubblicato sulle riviste peer reviewed, cioè quelle con un comitato che giudica l'idoneità alla pubblicazione, cioè quelle che contano realmente. Inoltre, è stato rilevato che la pubblicazione riguarda soprattutto gli studi con esito positivo e soprattutto quelli che puntavano all'efficacia e non alla sicurezza. Anzi, mentre per alcuni farmaci sono stati pubblicati tutti gli studi condotti ai fini dell'uso pediatrico, per parecchi altri con problemi di sicurezza non ne è stato pubblicato nessuno. In totale, soltanto il 26 per cento degli studi che affrontavano la sicurezza di impiego è stato pubblicato. L'analisi entra poi in ulteriori dettagli, ma il senso non cambia: gli studi si fanno per ottenere l'allungamento del brevetto, ma se il risultato non è gran cosa, si preferisce non dargli troppa pubblicità. Gli autori ritengono che questo possa essere dovuto anche al fatto che non sono previsti ulteriori incentivi per la pubblicazione, che è una visione molto americana, ma aggiungono che si potrebbe vincolare l'allungamento del brevetto non soltanto alla realizzazione dello studio, ma anche alla sua pubblicazione. In fin dei conti, si stima che la "pediatric exclusivity" sia costata, in termini di ritardo nell'arrivo dei più economici generici, 14 miliardi di dollari. Dal punto di vista europeo e statalista ci si potrebbe chiedere perché gli studi, tutti, non li divulghi, a 360 gradi, l'FDA...
Maurizio Imperiali
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