Fiato mozzo

04 giugno 2004
Aggiornamenti e focus

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Uno dei motivi per i quali, malgrado tutto, si continua a fumare è che bene o male tutti possono dire di conoscere qualcuno che è arrivato a 80 anni fumando allegramente. Lo stesso vale almeno in parte per l'inquinamento atmosferico, il danno c'è ma non è direttamente osservabile in tutti. Però, se si sposta l'attenzione ai gruppi più vulnerabili, le prove ci sono e non si tratta soltanto di studi epidemiologici, ma di controlli diretti.
Il primo caso riguarda gli anziani. A Boston, negli Stati Uniti, un gruppo di 28 cittadini è stato tenuto sotto controllo per quanto riguarda un parametro fondamentale della funzionalità respiratoria: la saturazione d'ossigeno del sangue. Le misurazioni sono state condotte in diverse situazioni: per esempio a riposo, in piedi, durante un esercizio eccetera. I livelli di ossigenazione sono stati confrontati con i livelli di inquinamento da polveri sottili (meno di 2,5 micron) presenti al momento della misurazione. Effettivamente le concentrazioni di particolato deprimono la saturazione d'ossigeno, con la sola eccezione delle misurazioni condotte durante l'esercizio, probabilmente per compensazione (si respira più frequentemente). Oltretutto la riduzione era più forte nelle persone trattate con beta-bloccanti, cioè con uno dei principali farmaci antipertensivi oggi impiegati.

Effetti sui malati cronici


Altra categoria "debole" è quella dei malati cronici, o di chi è reduce da un accidente cardiovascolare. E' uno studio italiano, condotto a Roma dall'Istituto Superiore di Sanità, che ha valutato gli effetti dell'inquinamento urbano in caso di presenza di tre malattie molto diffuse: ischemia coronarica, bronchite cronica e asma. I ricercatori dell'ISS non si sono limitati al PM 2,5 ma hanno tenuto presenti anche la quantità di PM 10 di biossido, d'azoto e di ozono, quest'ultimo indotto soprattutto dalla combinazione di funzionamento di motori a scoppio ed elevate temperature. Nei pazienti affetti da bronchite cronica, alti livelli di PM 2,5 inducevano sia una diminuzione della funzionalità respiratoria sia un aumento delle pulsazioni cardiache. Negli asmatici la capacità respiratoria, oltre che dal PM 2,5, era minata anche dal biossido di azoto. Quanto a chi soffriva di ischemia, era di nuovo il PM 2,5 a causare un aumento della variabilità del ritmo cardiaco, condizione riconosciuta tra quelle alla base di eventi come infarto e ictus.

Culle assediate dal particolato


Anche i bambini, soprattutto i più piccoli, rientrano tra i soggetti più esposti a questi effetti. Pur con tutte le cautele del caso, uno studio statunitense, esaminando i dati di 23 aree metropolitane, e fissando un livello di PM10 inferiore a quello ufficialmente ritenuto soglia di allarme, ha calcolato la quota di decessi di neonati e infanti attribuibile all'inquinamento. In queste aree metropolitane il 6% di tutte le morti infantili è attribuibile alla presenza del particolato (assunto qui come indice generale dell'inquinamento atmosferico). Se però si passa a considerare solo i decessi per morte in culla e per disturbi respiratori (in bambini normopeso) la percentuale attribuibile all'inquinamento sale rispettivamente al 6 e al 24%. Certamente i numeri assoluti non sono da epidemia ma comunque molto consistenti: nel caso della morte in culla si parla di 79 decessi anno. Uno studio rivolto invece agli scolari australiani delle elementari ha mostrato che l'aumento della presenza nell'aria di particolato ha determinato un aumento delle visite mediche, mentre al biossido di azoto si associava un aumento della tosse catarrosa. Gli autori concludevano che non avevano potuto dimostrare di più, ma va anche tenuto presente che il campione era di soli 25 bambini. Certo che se l'inquinamento fosse anche peggiore, magari gli effetti sarebbero più immediatamente evidenti. Ma non è il caso di augurarselo per amore di scienza.

Maurizio Imperiali



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