15 aprile 2013
Aggiornamenti e focus
Tumore prostatico: dibattito ancora aperto sul Psa
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«Le considerazioni dell'American college of physicians (Acp) sull'impiego dell'antigene prostatico specifico (Psa) come screening di popolazione per il tumore prostatico si inseriscono in un dibattito che dura da molti anni». Lo ricorda Giario Conti, responsabile U.O. di Urologia all'Ospedale S.Anna di Como e presidente della Società italiana di urologia oncologica (Siuro). «Mentre la mammografia e la ricerca del sangue occulto nelle feci sono stati valutati idonei a scoprire precocemente il rischio, rispettivamente, di cancro della mammella e del colon con un rapporto favorevole tra costo e beneficio, nel caso del Psa tale vantaggio non sembra essere stato raggiunto». Esistono, infatti, tumori prostatici che non richiederebbero il trattamento, in quanto non in grado di influire sulla sopravvivenza del paziente. «Effettivamente l'eccesso di trattamento è insito nello screening e ciò costituisce un problema nella comunicazione con il paziente. Andrebbe in realtà spezzato il binomio sovradiagnosis-sovratrattamento» prosegue Conti. «Inoltre, a tutt'oggi, non vi è nemmeno condivisione sull'età in cui eventualmente fare lo screening: per l'Acp è inutile prima dei 50 anni, altri sostengono che tale limitazione è ingiustificata». L'argomento, peraltro, era stato già affrontato due anni fa dalla Siuro - dopo la pubblicazione di due grandi screening (uno Usa, l'altro europeo) - con la stesura di un decalogo ancora attuale «in cui si afferma» spiega il presidente della Siuro «che, per ora, non esistono dati per giustificare uno screening di massa, ma che sicuramente il test è indicato in alcune categorie di pazienti "a rischio" per familiarità, sintomatologia urinaria, etnia (soggetti afroamericani). Se poi è il paziente a chiedere l'esame, occorre dare l'informazione corretta sul significato del test e sulle possibili conseguenze della sua effettuazione, come ora conferma l'Acp». L'iter diagnostico-terapeutico, infatti, può essere pesante, e ciò è grave se non vi è la certezza della necessità di trattamento. «Per ovviare a ciò sono stati avviati programmi di sorveglianza attiva che consentono di identificare i pazienti da tenere in osservazione senza intervenire subito. Una pratica che potrebbe divenire meno pressante quando saranno disponibili nuovi marcatori biomolecolari o genetici più precisi nella predizione del rischio su tempi lunghi».
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