20 settembre 2010
Aggiornamenti e focus
Diabete: spunti per una riflessione
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Le previsioni epidemiologiche per il diabete mellito sono ben note: entro il 2025 è atteso un sensibile incremento del numero di casi, superiore per il diabete mellito tipo 2 (DM2) rispetto al diabete tipo 1 (DM1).
Nel processo patogenetico che conduce al DM2, un ruolo rilevante è svolto da fattori ambientali (ridotta attività fisica, iperalimentazione, sovrappeso).
Con un'estremizzazione dialettica potremo affermare che il DM2 imprime una brusca e vigorosa accelerata al naturale processo di aterosclerosi, causa di temibili manifestazioni patologiche: retinopatia (il diabete è oggi la prima causa di cecità nel mondo), cardiopatia ischemica (angina, infarto miocardico, ecc.), encefalopatia vascolare (progressivo decadimento cognitivo costellato da attacchi ischemici cerebrali sino all'estrema conseguenza, l'ictus, spesso con drammatiche ripercussioni sull'autonomia di vita), declino della funzionalità renale sino all'insufficienza grave (dialisi), aterosclerosi a carico delle arterie periferiche (in particolare delle gambe, ciò che conduce spesso a mutilanti amputazioni). Ne consegue che curare il DM2 oggi non può limitarsi alla cura della sola glicemia del paziente, ma significa pensare una terapia per arginare il rischio di tutte le complicanze sopra descritte.
Questo progetto di ''cura totale'' implica un enorme impegno a tutti i livelli.
La persona diabetica è chiamata ad assumere una massiccia terapia farmacologica che, sin dall'insorgenza della malattia, dovrebbe comprendere un ipoglicemizzante orale, un antiaggregante (es. acido acetilsalicilico a basso dosaggio), una statina e un ace-inibitore (o meglio, un sartanico): la giornata tipo sarà scandita dal ritmo di assunzione dei farmaci, non meno di 4-6 compresse al giorno, ciò che presuppone una notevole compliance (capacità-volontà del paziente di offrire costante adesione a tale schema), oltre all'eventuale sovrapprezzo pagato per effetti indesiderati o collaterali scatenati dai farmaci.
Sorvoliamo sul peso sopportato dai familiari del paziente diabetico ancora in buone condizioni (seppure è facile immaginare che il rispetto degli schemi dietetici finisca comunque per ''coinvolgere'' chi prepara o consuma i pasti con il paziente). E' invece decisamente più gravoso convivere con un diabetico che presenta importanti complicanze pensiamo ad un ipovedente o ad un cardiopatico (a motivo del costante timore di improvvisi aggravamenti, del rispetto dei tempi imposti dalle visite di controllo) - e diventa uno sforzo addirittura eroico se il paziente convivente è in dialisi o è stato amputato o è divenuto emiplegico o demente ...
La ripercussione sulla collettività deve tener conto sia dei costi ''diretti'' (cioè quelli sostenuti per le terapie farmacologiche, le procedure diagnostiche volte al riconoscimento delle complicanze, le procedure invasive e/o chirurgiche per la cura delle stesse, le terapie riabilitative, i materiali ed ausili protesici, ecc.) che dei costi ''indiretti'' determinati dal progressivo ritiro del paziente dalla vita produttiva (una recente analisi del Ministero della Salute sull'impatto economico del diabete in Italia, stima in 5,17 milioni di euro l'anno il costo totale di tale patologia, pari al 6,65% della spesa sanitaria nazionale complessiva. Il costo dell'assistenza sanitaria erogata ad un paziente diabetico aumenta da 3 a 4 volte se sussistono o solo complicanze cardiocerebrovascolari o solo complicanze microvascolari, a carico di rene, retina e sistema nervoso periferico, e di 5 volte se sono presenti ambedue questi tipi di complicanze).
In questo contesto dobbiamo inoltre inscrivere anche il notevole impegno assolto dalla comunità scientifica, che comprende non solo chi è chiamato a prendersi cura del paziente diabetico (medici, infermieri, personale paramedico impegnato a vari livelli, ecc.) ma anche e soprattutto i ricercatori che hanno la responsabilità di ''inventare'' qualcosa di sempre più intelligente, innovativo, efficace (pensiamo quale evoluzione culturale ha accompagnato la nascita dei nuovi farmaci, dai glitazoni, agli agonisti di GLP-1, DPP-IV inibitori, dual-PPAR, ecc.).
La storia però tante volte ci ha spinto all'entusiasmo con promettenti innovazioni tecnologiche, salvo poi dover talvolta ripiegare un po' amaramente sulla constatazione che la medicina, parafrasando Galileo, è fatta di verità scritte sulla lavagna, destinate ad essere facilmente cancellate.
Al di là (e potremmo aggiungere, nonostante) un crescente ed entusiasmante fervore scientifico e il promettente scenario di innovazione terapeutica, rimangono comunque le sconsolanti previsioni epidemiologiche: per il 2025 è atteso in Italia un incremento dagli attuali 2 milioni di diabetici a 5 milioni.
Se volgiamo lo sguardo poi ''in casa d'altri'' rileviamo come anche i cardiologi hanno da tempo dichiarato guerra all'obesità e in ogni congresso sono puntualmente dedicate sessioni all'argomento. Ancor più acceso è il dibattito presso gli endocrinologi, i dietologi, ecc.
Sembra dunque ormai assodato che la base comune di numerose malattie debba essere ricondotta alla ridotta attività fisica, all'alimentazione eccessiva e conseguente sovrappeso.
Ma a fronte dell'oneroso impegno (inteso non solo in senso economico) per ricercare terapie sempre più efficaci, cosa è possibile fare in più di quello che già è stato fatto?
Da anni si insiste sull'opportunità di controllare il peso corporeo, svolgere regolarmente attività fisica ... ma qual'è il punto della situazione? Qualche esempio.
Circa 30 anni fa Luca Goldoni dalle colonne del Corriere della Sera esprimeva la sua disapprovazione per le madri che accompagnano il bambino in auto sin sulla porta della scuola, senza fargli fare un solo passo, causando congestione acuta del traffico nei quartieri limitrofi. Queste stesse madri poi al pomeriggio spendono somme non indifferenti per permettere al rampollo di fare atletica, nuoto, scherma, ecc.. Cosa è cambiato in trent'anni? Verrebbe da dire poco o, addirittura...
Ancora... quanto tempo dedicavano i quarantenni del 1970 allo svolgimento di attività fisica? Quanto i quarantenni di oggi?
Continuiamo... quanti bambini o ragazzi si trovano già in condizioni di sovrappeso se non di franca obesità?
Come è cambiata l'abitudine al fumo (età di inizio, intensità, durata dell'abitudine) o all'assunzione di alcolici, soprattutto nelle generazioni più giovani?
Alcuni settimane fa ''The new York Times'' pubblicava la notizia di una proposta ''shock'': ridurre a New York il numero dei fast food... eppure sono ormai anni che si denunciano i rischi correlati al junk-food (cibo-spazzatura)... possibile che non si disponga di altri mezzi di convincimento se non la coercizione?
Viene da osservare che oltre ad abitudini alimentari voluttuarie scorrette (o quantomeno poco salutari), anche la pratica di una qualsivoglia attività è ancora troppo avulsa dal contesto di vita abituale: spesso riteniamo che lo svolgimento di attività fisica debba avvenire solo in palestra o in idoneo impianto sportivo. Nella vita comune invece ... possiamo accettare l'idea di rinunciare all'ascensore per uno o due piani a piedi, siamo disposti a parcheggiare l'auto a uno due chilometri dalla sede di lavoro per fare un po' di moto (o a scendere una due fermate di bus prima della nostra abituale)? Probabilmente non riusciamo ancora ad accettare l'idea che lo svolgimento di una qualsivoglia forma di attività fisica costituisce una misura di igiene di vita al pari di quella di lavarsi i denti e che, come questa, dovrebbe divenire una pratica abituale.
Troppo spesso siamo portati a trinceraci dietro la scusa ''...Non ho tempo...'' ma ben sappiamo che ciò cela frequentemente una volontà poco motivata a trovare uno spazio...
Ancora, quante volte il medico (internista, diabetologo, cardiologo, ecc.) pone al paziente precise domande sulle reali abitudini alimentari (ritmo e frequenza di assunzione dei pasti; calcolo, anche approssimativo, dell'introito calorico giornaliero?), sul livello di attività fisica abitualmente svolta, ecc.?
E' senz'altro auspicabile una sempre più intensa attività di ricerca clinica e farmacologica, ma è altrettanto doveroso porre mano ad un reale cambiamento di quelle abitudini di vita che da più di trent'anni sono state messe all'indice ma che pure continuano a sopravvivere, o anzi...
Dr. Alberto Pozzati
Specialista in Medicina Interna
U.O. Medicina Generale
(Istituto Clinico Mater Domini - Castellanza - VA)
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Salute oggi:
...e inoltre su Dica33:
Nel processo patogenetico che conduce al DM2, un ruolo rilevante è svolto da fattori ambientali (ridotta attività fisica, iperalimentazione, sovrappeso).
Con un'estremizzazione dialettica potremo affermare che il DM2 imprime una brusca e vigorosa accelerata al naturale processo di aterosclerosi, causa di temibili manifestazioni patologiche: retinopatia (il diabete è oggi la prima causa di cecità nel mondo), cardiopatia ischemica (angina, infarto miocardico, ecc.), encefalopatia vascolare (progressivo decadimento cognitivo costellato da attacchi ischemici cerebrali sino all'estrema conseguenza, l'ictus, spesso con drammatiche ripercussioni sull'autonomia di vita), declino della funzionalità renale sino all'insufficienza grave (dialisi), aterosclerosi a carico delle arterie periferiche (in particolare delle gambe, ciò che conduce spesso a mutilanti amputazioni). Ne consegue che curare il DM2 oggi non può limitarsi alla cura della sola glicemia del paziente, ma significa pensare una terapia per arginare il rischio di tutte le complicanze sopra descritte.
Questo progetto di ''cura totale'' implica un enorme impegno a tutti i livelli.
La persona diabetica è chiamata ad assumere una massiccia terapia farmacologica che, sin dall'insorgenza della malattia, dovrebbe comprendere un ipoglicemizzante orale, un antiaggregante (es. acido acetilsalicilico a basso dosaggio), una statina e un ace-inibitore (o meglio, un sartanico): la giornata tipo sarà scandita dal ritmo di assunzione dei farmaci, non meno di 4-6 compresse al giorno, ciò che presuppone una notevole compliance (capacità-volontà del paziente di offrire costante adesione a tale schema), oltre all'eventuale sovrapprezzo pagato per effetti indesiderati o collaterali scatenati dai farmaci.
Sorvoliamo sul peso sopportato dai familiari del paziente diabetico ancora in buone condizioni (seppure è facile immaginare che il rispetto degli schemi dietetici finisca comunque per ''coinvolgere'' chi prepara o consuma i pasti con il paziente). E' invece decisamente più gravoso convivere con un diabetico che presenta importanti complicanze pensiamo ad un ipovedente o ad un cardiopatico (a motivo del costante timore di improvvisi aggravamenti, del rispetto dei tempi imposti dalle visite di controllo) - e diventa uno sforzo addirittura eroico se il paziente convivente è in dialisi o è stato amputato o è divenuto emiplegico o demente ...
La ripercussione sulla collettività deve tener conto sia dei costi ''diretti'' (cioè quelli sostenuti per le terapie farmacologiche, le procedure diagnostiche volte al riconoscimento delle complicanze, le procedure invasive e/o chirurgiche per la cura delle stesse, le terapie riabilitative, i materiali ed ausili protesici, ecc.) che dei costi ''indiretti'' determinati dal progressivo ritiro del paziente dalla vita produttiva (una recente analisi del Ministero della Salute sull'impatto economico del diabete in Italia, stima in 5,17 milioni di euro l'anno il costo totale di tale patologia, pari al 6,65% della spesa sanitaria nazionale complessiva. Il costo dell'assistenza sanitaria erogata ad un paziente diabetico aumenta da 3 a 4 volte se sussistono o solo complicanze cardiocerebrovascolari o solo complicanze microvascolari, a carico di rene, retina e sistema nervoso periferico, e di 5 volte se sono presenti ambedue questi tipi di complicanze).
In questo contesto dobbiamo inoltre inscrivere anche il notevole impegno assolto dalla comunità scientifica, che comprende non solo chi è chiamato a prendersi cura del paziente diabetico (medici, infermieri, personale paramedico impegnato a vari livelli, ecc.) ma anche e soprattutto i ricercatori che hanno la responsabilità di ''inventare'' qualcosa di sempre più intelligente, innovativo, efficace (pensiamo quale evoluzione culturale ha accompagnato la nascita dei nuovi farmaci, dai glitazoni, agli agonisti di GLP-1, DPP-IV inibitori, dual-PPAR, ecc.).
La storia però tante volte ci ha spinto all'entusiasmo con promettenti innovazioni tecnologiche, salvo poi dover talvolta ripiegare un po' amaramente sulla constatazione che la medicina, parafrasando Galileo, è fatta di verità scritte sulla lavagna, destinate ad essere facilmente cancellate.
Al di là (e potremmo aggiungere, nonostante) un crescente ed entusiasmante fervore scientifico e il promettente scenario di innovazione terapeutica, rimangono comunque le sconsolanti previsioni epidemiologiche: per il 2025 è atteso in Italia un incremento dagli attuali 2 milioni di diabetici a 5 milioni.
Se volgiamo lo sguardo poi ''in casa d'altri'' rileviamo come anche i cardiologi hanno da tempo dichiarato guerra all'obesità e in ogni congresso sono puntualmente dedicate sessioni all'argomento. Ancor più acceso è il dibattito presso gli endocrinologi, i dietologi, ecc.
Sembra dunque ormai assodato che la base comune di numerose malattie debba essere ricondotta alla ridotta attività fisica, all'alimentazione eccessiva e conseguente sovrappeso.
Ma a fronte dell'oneroso impegno (inteso non solo in senso economico) per ricercare terapie sempre più efficaci, cosa è possibile fare in più di quello che già è stato fatto?
Da anni si insiste sull'opportunità di controllare il peso corporeo, svolgere regolarmente attività fisica ... ma qual'è il punto della situazione? Qualche esempio.
Circa 30 anni fa Luca Goldoni dalle colonne del Corriere della Sera esprimeva la sua disapprovazione per le madri che accompagnano il bambino in auto sin sulla porta della scuola, senza fargli fare un solo passo, causando congestione acuta del traffico nei quartieri limitrofi. Queste stesse madri poi al pomeriggio spendono somme non indifferenti per permettere al rampollo di fare atletica, nuoto, scherma, ecc.. Cosa è cambiato in trent'anni? Verrebbe da dire poco o, addirittura...
Ancora... quanto tempo dedicavano i quarantenni del 1970 allo svolgimento di attività fisica? Quanto i quarantenni di oggi?
Continuiamo... quanti bambini o ragazzi si trovano già in condizioni di sovrappeso se non di franca obesità?
Come è cambiata l'abitudine al fumo (età di inizio, intensità, durata dell'abitudine) o all'assunzione di alcolici, soprattutto nelle generazioni più giovani?
Alcuni settimane fa ''The new York Times'' pubblicava la notizia di una proposta ''shock'': ridurre a New York il numero dei fast food... eppure sono ormai anni che si denunciano i rischi correlati al junk-food (cibo-spazzatura)... possibile che non si disponga di altri mezzi di convincimento se non la coercizione?
Viene da osservare che oltre ad abitudini alimentari voluttuarie scorrette (o quantomeno poco salutari), anche la pratica di una qualsivoglia attività è ancora troppo avulsa dal contesto di vita abituale: spesso riteniamo che lo svolgimento di attività fisica debba avvenire solo in palestra o in idoneo impianto sportivo. Nella vita comune invece ... possiamo accettare l'idea di rinunciare all'ascensore per uno o due piani a piedi, siamo disposti a parcheggiare l'auto a uno due chilometri dalla sede di lavoro per fare un po' di moto (o a scendere una due fermate di bus prima della nostra abituale)? Probabilmente non riusciamo ancora ad accettare l'idea che lo svolgimento di una qualsivoglia forma di attività fisica costituisce una misura di igiene di vita al pari di quella di lavarsi i denti e che, come questa, dovrebbe divenire una pratica abituale.
Troppo spesso siamo portati a trinceraci dietro la scusa ''...Non ho tempo...'' ma ben sappiamo che ciò cela frequentemente una volontà poco motivata a trovare uno spazio...
Ancora, quante volte il medico (internista, diabetologo, cardiologo, ecc.) pone al paziente precise domande sulle reali abitudini alimentari (ritmo e frequenza di assunzione dei pasti; calcolo, anche approssimativo, dell'introito calorico giornaliero?), sul livello di attività fisica abitualmente svolta, ecc.?
E' senz'altro auspicabile una sempre più intensa attività di ricerca clinica e farmacologica, ma è altrettanto doveroso porre mano ad un reale cambiamento di quelle abitudini di vita che da più di trent'anni sono state messe all'indice ma che pure continuano a sopravvivere, o anzi...
Dr. Alberto Pozzati
Specialista in Medicina Interna
U.O. Medicina Generale
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