25 maggio 2017
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Alzheimer: i buoni rapporti con i familiari ne riducono il rischio
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In una popolazione che invecchia costantemente la demenza nelle sue varie forme - in particolare l'Alzheimer, la forma più diffusa (50-60 per cento dei casi) - rappresenta un enorme problema e i rapporti con i familiari e i parenti più stretti potrebbero essere una soluzione, almeno parziale. È quanto emerge dalle pagine della rivista Journal of Alzheimer's disease , sulla quale sono stati recentemente pubblicati i risultati di uno studio che ha coinvolto poco più di 10mila persone di età superiore a 50 anni dello studio English longitudinal study of ageing (Elsa).
«Avere una rete di relazioni sociali strette può contribuire a ridurre il rischio di demenza» esordisce Mizanur Khondoker, della Norwich medical school della University of East Anglia di Norwich e autore principale dello studio. «Numerose teorie sociologiche però sottolineano come le relazioni personali possano avere effetti positivi e negativi in questo senso» aggiunge. E per comprendere gli effetti di queste relazioni nelle fasi più avanzate della vita, i ricercatori hanno analizzato i dati relativi ai partecipanti allo studio, tutti privi di demenza all'inizio dell'analisi, per un periodo di 10 anni.
«Ci siamo concentrati in particolare sulle relazioni più strette come quelle con i figli adulti, il partner o i parenti più prossimi come fratelli o cugini» spiega Khondoker, ricordando che nel corso del periodo di osservazione il 3,4 per cento dei partecipanti ha sviluppato qualche forma di demenza. A conti fatti, l'analisi ha messo in luce che relazioni positive e di supporto con i familiari più stretti riducono del 17 per cento il rischio di demenza, mentre relazioni negative lo aumentano del 31 per cento.
«Le ragioni che determinano questi effetti sono molteplici e sono necessari ulteriori studi per comprenderle fino in fondo» concludono gli autori. «Relazioni personali negative potrebbero limitare le interazioni sociali e gli stimoli cognitivi aumentando il rischio di demenza oppure potrebbe avere un ruolo anche lo stress legato a queste relazioni negative» ipotizza in un commento Anton Porsteinsson direttore dell'Alzheimer's disease care, research and education program alla University of Rochester school of medicine and dentistry di New York.
Fonte: J Alzheimers Dis. 2017;58(1):99-108. doi: 10.3233/JAD-161160
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«Avere una rete di relazioni sociali strette può contribuire a ridurre il rischio di demenza» esordisce Mizanur Khondoker, della Norwich medical school della University of East Anglia di Norwich e autore principale dello studio. «Numerose teorie sociologiche però sottolineano come le relazioni personali possano avere effetti positivi e negativi in questo senso» aggiunge. E per comprendere gli effetti di queste relazioni nelle fasi più avanzate della vita, i ricercatori hanno analizzato i dati relativi ai partecipanti allo studio, tutti privi di demenza all'inizio dell'analisi, per un periodo di 10 anni.
«Ci siamo concentrati in particolare sulle relazioni più strette come quelle con i figli adulti, il partner o i parenti più prossimi come fratelli o cugini» spiega Khondoker, ricordando che nel corso del periodo di osservazione il 3,4 per cento dei partecipanti ha sviluppato qualche forma di demenza. A conti fatti, l'analisi ha messo in luce che relazioni positive e di supporto con i familiari più stretti riducono del 17 per cento il rischio di demenza, mentre relazioni negative lo aumentano del 31 per cento.
«Le ragioni che determinano questi effetti sono molteplici e sono necessari ulteriori studi per comprenderle fino in fondo» concludono gli autori. «Relazioni personali negative potrebbero limitare le interazioni sociali e gli stimoli cognitivi aumentando il rischio di demenza oppure potrebbe avere un ruolo anche lo stress legato a queste relazioni negative» ipotizza in un commento Anton Porsteinsson direttore dell'Alzheimer's disease care, research and education program alla University of Rochester school of medicine and dentistry di New York.
Fonte: J Alzheimers Dis. 2017;58(1):99-108. doi: 10.3233/JAD-161160
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