16 marzo 2015
Interviste
Una cura per l'emofilia B, l'Italia tenta la strada della terapia genica
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Se si riuscirà un giorno a curare l'emofilia B con la terapia genica, gran parte del merito andrà all'équipe internazionale di ricercatori guidati da Luigi Naldini, direttore dell'IstitutoTelethonSan Raffaele per la terapia genica (Tiget). Il gruppo di Naldini, affiancato da ricercatori di Germania, Francia, Belgio e Usa, ha infatti verificato sul modello animale la fattibilità di questo approccio, pubblicando gli incoraggianti risultati ottenuti sulla rivista Science translational medicine.
In Italia (secondo il Registro nazionale delle coagulopatie congenite) soffrono di emofilia circa 4.200 persone, di cui almeno 2.000 in forma grave.
Dica33 ha parlato con il professor Naldini delle prospettive aperte da questo studio.
Quali sono i punti di forza di questa nuova terapia genica possibile?
«L'aver riscontrato efficacia e sicurezza nel modello animale ci porta ad avere buone speranze per una futura transizione alla sperimentazione sull'uomo. L'obiettivo è certamente il miglioramento della qualità della vita dei malati, per ora di coloro che soffrono di emofilia di tipo B, la forma meno frequente. Ma la strada della terapia genica potrebbe essere percorsa, se i risultati ci daranno ragione, anche per i malati di emofilia di tipo A, più diffusa».
Come funziona nella pratica l'ipotesi di terapia genica per l'emofilia di tipo B?
«Siamo di fronte ad una malattia genetica. Chi ne è affetto ha un difetto in uno dei geni coinvolti nella coagulazione del sangue e deve subire ogni 2-3 giorni, per tutta la vita, la somministrazione per via endovenosa del fattore mancante, che il gene "difettoso" non è in grado di produrre.
Con la terapia genica l'obiettivo è di inserire al posto giusto il gene mancante. Lo si fa iniettando nel circolo sanguigno un cosiddetto vettore lentivirale, una sorta di camioncino che raggiunge il fegato - sede naturale di produzione del fattore della coagulazione mancante in questi malati - dove deposita una copia funzionante del gene, che si integra nel posto giusto. Le cellule del fegato così corrette possono quindi immettere continuativamente il fattore nel circolo sanguigno, all'interno del quale potrà svolgere la sua funzione quando necessario».
Quanto tempo è necessario per avere la risposta anche sull'uomo?
«Prima di passare alla sperimentazione sull'uomo sono necessari ulteriori studi che impiegheranno ancora almeno due o tre anni di lavoro».
Dal luglio 2013, quando avete presentato i dati clinici per la cura di due malattie infantili letali - la leucodistrofia metacromatica e la sindrome di Wilscott Aldrich - avete dimostrato che la terapia genica è una strada da percorrere per ottenere dei risultati di cura in diversi ambiti. Ora sappiamo infatti che quelle due malattie sono curabili. Cosa ci dobbiamo attendere ancora?
«Abbiamo dimostrato il potenziale terapeutico di una piattaforma per il trasferimento di geni basata sui vettori lentivirali. Da questa stessa basedi partenza stiamo lavorando per sviluppare nuove potenziali terapie per differenti patologie. La terapia genica ha conosciuto fasi alterne tra promesse e disincanto ma i risultati clinici incoraggianti annunciati negli ultimi anni, tra cui quelli del nostro Istituto che lei cita, hanno consentito il ritorno dell'attenzione e fiducia della comunità scientifica e anche dell'industria farmacologica».
Con quale atteggiamento i malati e le loro famiglie si accostano alla terapia genica?
«È differente l'approccio di chi è affetto da malattie potenzialmente letali e senza possibilità di cura convenzionale rispetto a chi può disporre di una terapia efficace, per quanto impegnativa e non risolutiva. Per i primi la terapia genica può talvolta rappresentare l'unica strada da percorrere, per i secondi invece vale la possibilità di un miglioramento sostanziale della qualità di vita. È evidente che il rapporto rischio-beneficio sarà molto diverso nei due casi e che quando vi sono trattamenti disponibili la giustificazione per sperimentare una nuova terapia genica dovrà anche basarsi su solide evidenze di sicurezza. Lo scopo del nostro lavoro e di tanti gruppi di ricercatori in tutto il mondo è ampliare l'applicazione di questa tecnica a più ambiti, migliorandone efficacia e sicurezza».
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