23 settembre 2005
Aggiornamenti e focus
Quel che conta è riaprire
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Non è sempre vero che la nuova tecnica scalza quella vecchia, a volte viaggiano in parallelo e ampliano il panorama di soluzioni che il paziente ha a disposizione per ricevere la cura migliore possibile. E’ certamente il caso della chirurgia vascolare: a quella tradizionale si affianca quella mininvasiva o endovascolare. E la cosa migliore è che entrambe facciano parte delle abilità del chirurgo a cui ci si rivolge.
Ed è proprio questo uno degli obiettivi della Società italiana di chirurgia vascolare ed endovascolare (SICVE): “Formare specialisti in grado di offrire la soluzione migliore cucita addosso - lo afferma Domenico Palombo, presidente della Società in sede di conferenza stampa per la presentazione del IV congresso nazionale della SICVE – l’intervento vascolare tradizionale e endovascolare mininvasivo sono due validi strumenti complementari in mano agli specialisti per risolvere le diverse patologie arteriose che, a causa della variabilità dell’estensione e della sede delle lesioni risultano essere molto complesse”.
Mentre con la tecnica tradizionale l’accesso ai vasi avviene dall’esterno con la metodica endovascolare si procede per via endoluminale, utilizzando, per l’accesso alle lesioni, il lume stesso dell’arteria, raggiunto attraverso l’incannulamento di un’arteria periferica, accessibile in anestesia locale. Con una puntura transcutanea o con una minincisione (arteria femorale o ascellare), attraverso la quale vengono inseriti i cateteri, le guide, gli strumenti e addirittura le protesi (endoprotesi) che vengono spinte a ritroso sotto controllo radiografico fino a raggiungere, appunto dall’interno del vaso, la sede della lesione. La bassa invasività permette il regime in day hospital, degenze più brevi e ripresa delle normali attività in tempi più rapidi.
La chirurgia tradizionale in alcuni casi di patologia arteriosa può essere insostituibile tuttavia per la malattia steno-ostruttiva, cioè il restringimento delle arterie fino all’occlusione o, al contrario, la malattia aneurismatica, cioè la dilatazione progressiva delle arterie fino alla rottura, la tecnica endovascolare è una delle possibilità offerte ai pazienti.
Gli ambiti e le indicazioni a procedere sono uno dei temi cardine del congresso SICVE, anche se l’ipotesi è di poter intervenire in ogni distretto vascolare con entrambe le procedure.
L’intervento sulle carotidi è un esempio della duplice possibilità chirurgica e la scelta dipende da tanti fattori. La tecnica tradizionale comporta complicanze maggiori inferiori all’1% se la stenosi è primaria, cioè quando il paziente non è mai stato trattato; per quella endovascolare, il tasso di complicanze neurologiche si attesta attorno al 6%, dovute alla formazione di emboli. Tuttavia la scelta si basa anche sulla valutazione di altri fattori, come per esempio la tipologia della placca aterosclerotica che, nel 25-30% dei casi, interessa le carotidi. I dati di letteratura dimostrano che quando la stenosi è uguale o superiore al 70% l’intervento con chirurgia endovascolare previene l’ictus meglio di altre strategie terapeutiche. Ma quando la placca è fragile, con il rischio che i frammenti possano raggiungere il cervello, si preferisce la tecnica tradizionale, anche se ora esistono sistemi di protezione con filtri che ovviano a questo inconveniente. La soluzione non è quindi sulla carta, ma va ricercata in base al paziente.
Anche per il trattamento delle lesioni arteriose degli arti inferiori entrambe le tecniche hanno indicazioni da valutare caso per caso. In ogni caso il mandato è il salvataggio dell’arto: sul come, ancora una volta, si sceglie. Nel 2004 le linee guida hanno, per esempio, stabilito che se la lesione arteriosa iliaca è inferiore ai 3 cm le procedure endovascolari sono il trattamento di prima scelta, ma diventano controindicate se l’estensione supera i 10 cm o raggiungono la zona femorale. Tuttavia le tecniche sono molto migliorate e l’angioplastica degli arti inferiori, per esempio nei pazienti diabetici con rischio di gangrene o patologie invalidanti, si può procedere con cateteri e stent estremamente sottili che garantiscono risultati ottimali.
Anche per la malattia aneurismatica dell’aorta addominale ci sono pro e contro. La chirurgia endovascolare ha complicanze peri-operatorie inferiori e tempi di ricovero sensibilmente inferiori rispetto a quella tradizionale, ma l’intervento classico espone a rischi di complicanze post operatorie minori.
La tecnica si può scegliere ma l’obiettivo di entrambi i tipi di chirurgia vascolare è lo stesso: la prevenzione di eventi fatali o invalidanti, ictus, amputazione degli arti o emorragie interne. Entrambi i metodi sono uno strumento importante in una società che invecchia e che quindi va incontro a malattie cadiovascolari già solo per invecchiamento, ma anche la possibilità di intervenire su pazienti quarantenni o cinquantenni con una aspettativa di vita ben più lunga.
Simona Zazzetta
Salute oggi:
...e inoltre su Dica33:
Invasiva e non
Ed è proprio questo uno degli obiettivi della Società italiana di chirurgia vascolare ed endovascolare (SICVE): “Formare specialisti in grado di offrire la soluzione migliore cucita addosso - lo afferma Domenico Palombo, presidente della Società in sede di conferenza stampa per la presentazione del IV congresso nazionale della SICVE – l’intervento vascolare tradizionale e endovascolare mininvasivo sono due validi strumenti complementari in mano agli specialisti per risolvere le diverse patologie arteriose che, a causa della variabilità dell’estensione e della sede delle lesioni risultano essere molto complesse”.
Mentre con la tecnica tradizionale l’accesso ai vasi avviene dall’esterno con la metodica endovascolare si procede per via endoluminale, utilizzando, per l’accesso alle lesioni, il lume stesso dell’arteria, raggiunto attraverso l’incannulamento di un’arteria periferica, accessibile in anestesia locale. Con una puntura transcutanea o con una minincisione (arteria femorale o ascellare), attraverso la quale vengono inseriti i cateteri, le guide, gli strumenti e addirittura le protesi (endoprotesi) che vengono spinte a ritroso sotto controllo radiografico fino a raggiungere, appunto dall’interno del vaso, la sede della lesione. La bassa invasività permette il regime in day hospital, degenze più brevi e ripresa delle normali attività in tempi più rapidi.
Dalla testa ai piedi
La chirurgia tradizionale in alcuni casi di patologia arteriosa può essere insostituibile tuttavia per la malattia steno-ostruttiva, cioè il restringimento delle arterie fino all’occlusione o, al contrario, la malattia aneurismatica, cioè la dilatazione progressiva delle arterie fino alla rottura, la tecnica endovascolare è una delle possibilità offerte ai pazienti.
Gli ambiti e le indicazioni a procedere sono uno dei temi cardine del congresso SICVE, anche se l’ipotesi è di poter intervenire in ogni distretto vascolare con entrambe le procedure.
L’intervento sulle carotidi è un esempio della duplice possibilità chirurgica e la scelta dipende da tanti fattori. La tecnica tradizionale comporta complicanze maggiori inferiori all’1% se la stenosi è primaria, cioè quando il paziente non è mai stato trattato; per quella endovascolare, il tasso di complicanze neurologiche si attesta attorno al 6%, dovute alla formazione di emboli. Tuttavia la scelta si basa anche sulla valutazione di altri fattori, come per esempio la tipologia della placca aterosclerotica che, nel 25-30% dei casi, interessa le carotidi. I dati di letteratura dimostrano che quando la stenosi è uguale o superiore al 70% l’intervento con chirurgia endovascolare previene l’ictus meglio di altre strategie terapeutiche. Ma quando la placca è fragile, con il rischio che i frammenti possano raggiungere il cervello, si preferisce la tecnica tradizionale, anche se ora esistono sistemi di protezione con filtri che ovviano a questo inconveniente. La soluzione non è quindi sulla carta, ma va ricercata in base al paziente.
Anche per il trattamento delle lesioni arteriose degli arti inferiori entrambe le tecniche hanno indicazioni da valutare caso per caso. In ogni caso il mandato è il salvataggio dell’arto: sul come, ancora una volta, si sceglie. Nel 2004 le linee guida hanno, per esempio, stabilito che se la lesione arteriosa iliaca è inferiore ai 3 cm le procedure endovascolari sono il trattamento di prima scelta, ma diventano controindicate se l’estensione supera i 10 cm o raggiungono la zona femorale. Tuttavia le tecniche sono molto migliorate e l’angioplastica degli arti inferiori, per esempio nei pazienti diabetici con rischio di gangrene o patologie invalidanti, si può procedere con cateteri e stent estremamente sottili che garantiscono risultati ottimali.
Anche per la malattia aneurismatica dell’aorta addominale ci sono pro e contro. La chirurgia endovascolare ha complicanze peri-operatorie inferiori e tempi di ricovero sensibilmente inferiori rispetto a quella tradizionale, ma l’intervento classico espone a rischi di complicanze post operatorie minori.
La tecnica si può scegliere ma l’obiettivo di entrambi i tipi di chirurgia vascolare è lo stesso: la prevenzione di eventi fatali o invalidanti, ictus, amputazione degli arti o emorragie interne. Entrambi i metodi sono uno strumento importante in una società che invecchia e che quindi va incontro a malattie cadiovascolari già solo per invecchiamento, ma anche la possibilità di intervenire su pazienti quarantenni o cinquantenni con una aspettativa di vita ben più lunga.
Simona Zazzetta
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