24 settembre 2004
Aggiornamenti e focus
Mamma, cos'è la morte?
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Cose da grandi, si risponde per togliersi dall'imbarazzo di domande troppo curiose fatte dai bambini, ma ci sono argomenti su cui non si può glissare così facilmente o per lo meno non senza una riflessione. Spiegare a un bambino cos'è la morte quando sarà proprio lui a doverla affrontare è una decisione non semplice che non può non suscitare perplessità. E' un dilemma per i genitori che di fronte a una malattia in stadio terminale si impegnano a proteggere il bambino dalla notizia della loro morte imminente. In realtà sulla base di piccole indagini i ricercatori e i medici raccomandano una aperta e onesta comunicazione tra genitori e figli sulla prognosi negativa.
I bambini possono prendere coscienza di ciò che sta per accadere o attraverso l'informazione diretta o attraverso un ragionamento sul proprio stato di salute ed esprimono tale consapevolezza attraverso parole, gesti o disegni. Sono segnali significativi che dovrebbero indurre i genitori, che non lo hanno ancora fatto, a cominciare a parlarne.
Ci sono diversi studi infatti che dimostrano che il bambino malato terminale trae beneficio dal parlare della propria morte imminente, ciò che non è chiaro è come i genitori vivano questa comunicazione. Per approfondire anche questo aspetto della comunicazione, ricercatori svedesi hanno condotto un'indagine durata cinque anni identificando 368 bambini che avevano avuto una diagnosi per una malattia maligna entro il diciassettesimo anno di età e che erano deceduti entro i 25 anni.
Sono stati selezionati più di 500 genitori ai quali è stato sottoposto un questionario in cui è stato chiesto se avevano parlato al proprio figlio della morte, e se la risposta era negativa veniva poi domandato se avevano il rimpianto di non averlo fatto. Ma anche se la risposta era positiva veniva poi chiesto se si erano pentiti. Infine si sondava quando, secondo i genitori, i figli avevano preso coscienza della loro condizione, con risposte che potevano variare da "mai " fino a "tre e più anni prima di morire".
Ebbene, ne è emerso che il 34% ne aveva parlato il 66% no. Nessuno di coloro che lo aveva fatto si era pentito della scelta mentre il 27% di coloro che non lo avevano fatto rimpiangevano la propria decisione. Dall'elaborazione dei dati raccolti era evidente che i genitori che avevano avuto la sensazione che il figlio aveva preso coscienza della propria condizione erano quelli che, con più probabilità, avevano affrontato apertamente l'argomento. Ma questa decisione dipendeva anche dall'età del figlio, con quelli più grandi era più probabile che se ne parlasse, e dalla religione, genitori credenti erano più propensi a parlare della morte.
Chiaramente si tratta di dati limitati al campione e condizionati dalla soggettività delle persone intervistate, tuttavia sapere che nessuno, dei genitori che aveva affrontato l'argomento con il proprio figlio malato, si è poi pentito è un incoraggiamento a una scelta difficile.
Simona Zazzetta
Salute oggi:
...e inoltre su Dica33:
Loro sanno
I bambini possono prendere coscienza di ciò che sta per accadere o attraverso l'informazione diretta o attraverso un ragionamento sul proprio stato di salute ed esprimono tale consapevolezza attraverso parole, gesti o disegni. Sono segnali significativi che dovrebbero indurre i genitori, che non lo hanno ancora fatto, a cominciare a parlarne.
Ci sono diversi studi infatti che dimostrano che il bambino malato terminale trae beneficio dal parlare della propria morte imminente, ciò che non è chiaro è come i genitori vivano questa comunicazione. Per approfondire anche questo aspetto della comunicazione, ricercatori svedesi hanno condotto un'indagine durata cinque anni identificando 368 bambini che avevano avuto una diagnosi per una malattia maligna entro il diciassettesimo anno di età e che erano deceduti entro i 25 anni.
Rimorsi o rimpianti?
Sono stati selezionati più di 500 genitori ai quali è stato sottoposto un questionario in cui è stato chiesto se avevano parlato al proprio figlio della morte, e se la risposta era negativa veniva poi domandato se avevano il rimpianto di non averlo fatto. Ma anche se la risposta era positiva veniva poi chiesto se si erano pentiti. Infine si sondava quando, secondo i genitori, i figli avevano preso coscienza della loro condizione, con risposte che potevano variare da "mai " fino a "tre e più anni prima di morire".
Ebbene, ne è emerso che il 34% ne aveva parlato il 66% no. Nessuno di coloro che lo aveva fatto si era pentito della scelta mentre il 27% di coloro che non lo avevano fatto rimpiangevano la propria decisione. Dall'elaborazione dei dati raccolti era evidente che i genitori che avevano avuto la sensazione che il figlio aveva preso coscienza della propria condizione erano quelli che, con più probabilità, avevano affrontato apertamente l'argomento. Ma questa decisione dipendeva anche dall'età del figlio, con quelli più grandi era più probabile che se ne parlasse, e dalla religione, genitori credenti erano più propensi a parlare della morte.
Chiaramente si tratta di dati limitati al campione e condizionati dalla soggettività delle persone intervistate, tuttavia sapere che nessuno, dei genitori che aveva affrontato l'argomento con il proprio figlio malato, si è poi pentito è un incoraggiamento a una scelta difficile.
Simona Zazzetta
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