Coronarie puntellate

24 settembre 2004
Aggiornamenti e focus

Coronarie puntellate



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Una delle innovazioni più affascinanti nella cura dell'infarto o delle ischemie gravi si chiama stent, ed è un perfezionamento della tecnica di dilatazione delle arterie occluse (rivascolarizzazione) eseguita con il famoso "palloncino" (l'angioplastica).
I vantaggi dell'angioplastica rispetto alla chirurgia tradizionale sono parecchi: l'intervento è breve, poco invasivo e, quindi, affrontabile più facilmente anche da persone in condizioni poco favorevoli a lunghe permanenze in sala operatoria. Però c'era un però: l'arteria rivascolarizzata tende in un numero non trascurabile di casi a occludersi nuovamente. Infatti la dilatazione dell'arteria induce nelle fibre elastiche del vaso una risposta contraria, un po' come gonfiare una camera d'aria: il tubo di gomma tende a espellere l'aria. La risposta, come spesso avviene, è concettualmente semplice: posizionare nel tratto arterioso dilatato dal palloncino un tubetto (stent) di calibro adeguato che faccia per così dire da anima del vaso, impedendo che si richiuda con il tempo o sotto l'azione degli stessi fattori che avevano portato all'occlusione primaria.

Tipi diversi, tecniche diverse


Quanto a forme e materiali si distinguono diversi tipi di stent; formati da una singola spirale, tipo molla, a struttura elicoidale, a rete, di acciaio inossidabile, di tantalio o di palladio. Differenze ci sono anche nella tecnica di posizionamento: possono essere inseriti sul palloncino così che questo possa dilatarli quando viene gonfiato oppure possono dilatarsi automaticamente una volta liberati dalla guaina che li riveste. Questa tecnica è stata introdotta nel 1986, ma solo dall'inizio degli anni novanta l'uso dello stent si diffonde e cominciano grandi studi randomizzati di confronto con le altre tecniche. Oggi nel mondo sono stati impiantati più di 1 milione di stent e anche se non ci sono stati grandi studi a lungo termine alcuni dati sono emersi: rispetto all'angioplastica "semplice" si riducono le restenosi, ma non si eliminano e resta quindi la necessità di intervenire nuovamente. D'altra parte la riocclusione del vaso, quando è presente lo stent, si verifica con meccanismi diversi e soprattutto si produce all'interno del dispositivo e non perché l'arteria riduce complessivamente il suo diametro.

Un farmaco proprio dove serve


Ovviamente i cardiologi non si sono arresi e il passo successivo sono stati i drug eluting stent, cioè dispositivi in grado di rilasciare un farmaco attivo sul tratto di arteria. Il farmaco può semplicemente rivestire lo stent, oppure essere contenuto in una matrice polimerica o ancora essere rivestito da una sostanza polimerica e liberato attraverso un carrier. I sistemi attualmente più studiati sono quelli in cui lo stent è rivestito con un polimero cui è legato il farmaco, a sua volta coperto da uno strato della medesima sostanza che non contiene farmaco ma ha la funzione di rendere graduale il rilascio. Anche i farmaci impiegati sono differenti: sono stati provati immunosoppressivi, il fattore di crescita dell'endotelio vascolare, il 17-beta estradiolo (cioè l'estrogeno naturale, che ha un effetto positivo sulle fibre dell'endotelio, cioè del rivestimento interno dell'arteria). La categoria più studiata sono gli immunosoppressivi, però, e cioè sirolimus e paclitaxel. In parole semplici hanno l'effetto di impedire la proliferazione delle cellule del vaso arterioso, proliferazione che fa parte dei meccanismi fisiologici con cui l'arteria reagisce allo stress della dilatazione meccanica. Ovviamente la metodica è relativamente giovane, ma in effetti i principali studi indicano una riduzione delle restenosi del 70-80%, anche se prevalentemente si trattava di persone con un ridotto o medio rischio. Tuttavia, studi più piccoli hanno già riportato successi ottenuti in pazienti più gravi, per esempio gli infartuati.

Maurizio Imperiali



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