25 luglio 2008
Aggiornamenti e focus
Meglio il ritmo o la frequenza?
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Nei pazienti con insufficienza cardiaca che sviluppano fibrillazione atriale è pratica comune cercare di ristabilire e mantenere il ritmo sinusale. Il razionale di questo approccio deriva da evidenze che indicano nella fibrillazione atriale un predittore della mortalità, suggerendo che la correzione di queste manifestazioni possa favorevolmente influire sugli esiti. Il bilancio rischio/beneficio di questa procedura d'intervento, tuttavia, non è pienamente chiaro. A quantificare il beneficio reale intervengono ora i risultati di uno studio, multicentrico e randomizzato, che ha confrontato l'approccio di mantenimento del ritmo sinusale con una strategia di controllo della frequenza ventricolare.
Tra Canada, USA, Argentina, Brasile, Europa e Israele sono stati reclutati in tutto 1376 malati, con frazione di eiezione del ventricolo sinistro pari a non più del 35%, sintomi di insufficienza cardiaca congestizia, precedenti episodi di fibrillazione atriale. Tutti i pazienti sono stati seguiti per almeno 37 mesi, 682 assegnati al controllo del ritmo, 694 al controllo della frequenza.
Il ripristino del ritmo sinusale si ottiene con la somministrazione di farmaci antiaritmici oppure, in caso di mancata risposta, tramite cardioversione elettrica (uso del defibrillatore), i farmaci però sono poco consigliati nei pazienti con insufficiente funzione del ventricolo sinistro.
Nel corso dello studio a tutti i pazienti sono stati somministrati i trattamenti per l'insufficienza cardiaca: un farmaco ACE-inibitore o un antagonista del recettore dell'angiotensina, un beta-bloccante alla dose massima tollerata e un anticoagulante. Inoltre, nei casi previsti dalle linee guida, si è fatto ricorso all'impianto di un defibrillatore e alla resincronizzazione ventricolare.
Per i soggetti assegnati al gruppo controllo-ritmo si è impostata una terapia aggressiva con amiodarone (farmaco antiaritmico) per 6 settimane, seguito, in caso di mancata regolarizzazione del ritmo sinusale, da defibrillazione, eventualmente ripetuta a 3 mesi dall'arruolamento. Nei casi in cui la presenza di bradicardia controindicava l'uso del farmaco si è proceduto all'applicazione di un pacemaker permanente.
Nell'altro gruppo, il "controllo-frequenza" era perseguito con la somministrazione di farmaci beta-bloccanti e digitale. L'obiettivo era ottenere una frequenza ventricolare di meno di 80 battiti al minuto, misurati a riposo, e meno di 110 battiti al minuto durante il "six minute walk test". I pazienti che non raggiungevano i valori clinici target potevano essere sottoposti ad ablazione del nodo atrioventricolare e applicazione di un pacemaker.
Nel gruppo "controllo-ritmo" dopo 12 mesi l'82% dei pazienti era in trattamento con amiodarone, percentuale che scendeva al 76% a 2 anni e al 73% dopo i primi 3 anni di studio. Tuttavia 142 soggetti (il 21%) ai quali non si riusciva a stabilizzare il ritmo sinusale sono passati nell'altro gruppo. La prevalenza della fibrillazione atriale, che era del 54% al basale, è scesa al 33% in 3 settimane e al 17% a 4 mesi. Si è poi mantenuta stabile sotto il 20% fino a 2 anni dal reclutamento ed era presente nel 27% dei pazienti al termine del quarto anno.Nel gruppo controllo-frequenza più del 90% dei pazienti era in terapia con un anticoagulante e un ACE-inibitore (o antagonista del recettore dell'angiotensina), inoltre 66 pazienti (il 10%) sono passati all'altro gruppo a causa di un aggravamento dell'insufficienza cardiaca. Nel corso del follow up la prevalenza della fibrillazione atriale si è mantenuta su valori tra il 59% e il 70%. In compenso la frequenza ventricolare al "six minute walk test" è rientrata nei limiti specificati dalle linee guida nel 72% dei casi. Inoltre, gli obiettivi clinici per la gestione della fibrillazione e della frequenza cardiaca, nei primi 3 anni di follow up sono stati raggiunti dall'82-88% dei pazienti.
Poche le evidenze
Tutti i partecipanti sono stati esaminati dopo 3 settimane, 4 mesi e ogni 4 mesi per i primi 2 anni, poi i controlli sono stati effettuati a intervalli di 6 mesi. Il follow up mediano è stato di 47 mesi. La mortalità per cause cardiovascolari ha interessato il 27% (n=182) dei pazienti del primo gruppo e il 25% (n=175) del secondo gruppo, con un rischio relativo del primo gruppo rispetto al secondo di 1,06. Nel complesso il tasso medio di mortalità per cause cardiovascolari, tra tutti i partecipanti allo studio, è stato dell'8% annuo, sufficientemente basso considerata la gravità della patologia di fondo e delle possibili complicanze.Non sono emerse evidenze a vantaggio di una delle due strategie adottate, nemmeno per particolari sottogruppi di pazienti. Senza l'atteso beneficio, in termini di riduzione della mortalità, dello schema volto al ripristino del ritmo sinusale, appare più adeguato l'altro approccio che evita di esporre il malato ai rischi della terapia antiaritmica.
Elisabetta Lucchesini
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Caratteristiche del campione
Tra Canada, USA, Argentina, Brasile, Europa e Israele sono stati reclutati in tutto 1376 malati, con frazione di eiezione del ventricolo sinistro pari a non più del 35%, sintomi di insufficienza cardiaca congestizia, precedenti episodi di fibrillazione atriale. Tutti i pazienti sono stati seguiti per almeno 37 mesi, 682 assegnati al controllo del ritmo, 694 al controllo della frequenza.
Il ripristino del ritmo sinusale si ottiene con la somministrazione di farmaci antiaritmici oppure, in caso di mancata risposta, tramite cardioversione elettrica (uso del defibrillatore), i farmaci però sono poco consigliati nei pazienti con insufficiente funzione del ventricolo sinistro.
Nel corso dello studio a tutti i pazienti sono stati somministrati i trattamenti per l'insufficienza cardiaca: un farmaco ACE-inibitore o un antagonista del recettore dell'angiotensina, un beta-bloccante alla dose massima tollerata e un anticoagulante. Inoltre, nei casi previsti dalle linee guida, si è fatto ricorso all'impianto di un defibrillatore e alla resincronizzazione ventricolare.
Per i soggetti assegnati al gruppo controllo-ritmo si è impostata una terapia aggressiva con amiodarone (farmaco antiaritmico) per 6 settimane, seguito, in caso di mancata regolarizzazione del ritmo sinusale, da defibrillazione, eventualmente ripetuta a 3 mesi dall'arruolamento. Nei casi in cui la presenza di bradicardia controindicava l'uso del farmaco si è proceduto all'applicazione di un pacemaker permanente.
Nell'altro gruppo, il "controllo-frequenza" era perseguito con la somministrazione di farmaci beta-bloccanti e digitale. L'obiettivo era ottenere una frequenza ventricolare di meno di 80 battiti al minuto, misurati a riposo, e meno di 110 battiti al minuto durante il "six minute walk test". I pazienti che non raggiungevano i valori clinici target potevano essere sottoposti ad ablazione del nodo atrioventricolare e applicazione di un pacemaker.
Come è andato il follow up
Nel gruppo "controllo-ritmo" dopo 12 mesi l'82% dei pazienti era in trattamento con amiodarone, percentuale che scendeva al 76% a 2 anni e al 73% dopo i primi 3 anni di studio. Tuttavia 142 soggetti (il 21%) ai quali non si riusciva a stabilizzare il ritmo sinusale sono passati nell'altro gruppo. La prevalenza della fibrillazione atriale, che era del 54% al basale, è scesa al 33% in 3 settimane e al 17% a 4 mesi. Si è poi mantenuta stabile sotto il 20% fino a 2 anni dal reclutamento ed era presente nel 27% dei pazienti al termine del quarto anno.Nel gruppo controllo-frequenza più del 90% dei pazienti era in terapia con un anticoagulante e un ACE-inibitore (o antagonista del recettore dell'angiotensina), inoltre 66 pazienti (il 10%) sono passati all'altro gruppo a causa di un aggravamento dell'insufficienza cardiaca. Nel corso del follow up la prevalenza della fibrillazione atriale si è mantenuta su valori tra il 59% e il 70%. In compenso la frequenza ventricolare al "six minute walk test" è rientrata nei limiti specificati dalle linee guida nel 72% dei casi. Inoltre, gli obiettivi clinici per la gestione della fibrillazione e della frequenza cardiaca, nei primi 3 anni di follow up sono stati raggiunti dall'82-88% dei pazienti.
Poche le evidenze
Tutti i partecipanti sono stati esaminati dopo 3 settimane, 4 mesi e ogni 4 mesi per i primi 2 anni, poi i controlli sono stati effettuati a intervalli di 6 mesi. Il follow up mediano è stato di 47 mesi. La mortalità per cause cardiovascolari ha interessato il 27% (n=182) dei pazienti del primo gruppo e il 25% (n=175) del secondo gruppo, con un rischio relativo del primo gruppo rispetto al secondo di 1,06. Nel complesso il tasso medio di mortalità per cause cardiovascolari, tra tutti i partecipanti allo studio, è stato dell'8% annuo, sufficientemente basso considerata la gravità della patologia di fondo e delle possibili complicanze.Non sono emerse evidenze a vantaggio di una delle due strategie adottate, nemmeno per particolari sottogruppi di pazienti. Senza l'atteso beneficio, in termini di riduzione della mortalità, dello schema volto al ripristino del ritmo sinusale, appare più adeguato l'altro approccio che evita di esporre il malato ai rischi della terapia antiaritmica.
Elisabetta Lucchesini
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