Nelle vene materne il gene del bebè

10 marzo 2004
Aggiornamenti e focus

Nelle vene materne il gene del bebè



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La diagnosi prenatale ha rappresentato un progresso enorme nella tutela della salute della gravida e del nascituro. Non tutti i test che si possono condurre, però, sono assolutamente innocui. Così, se eseguire un'ecografia non pone certo problemi di bilancio tra rischi e benefici, la valutazione è necessaria per manovre più invasive come l'amniocentesi, prelievo del liquido amniotico che circonda il feto, soprattutto come il prelievo dei villi coriali, cioè dei piccoli vasi sporgenti che si formano alla base della placenta. Purtroppo anche il meno invasivo dei due test, l'amniocentesi, porta con sè un 1,5% di aborti.
Tutto questo potrebbe essere evitato con le nuove metodiche che si basano semplicemente sul prelievo di sangue materno, nel quale è dimostrata la presenza di DNA del feto, che è poi quanto si va a cercare con i prelievi più invasivi. Infatti lo scopo dei test è stabilire il cariotipo del nascituro cioè la sua "carta di identità genetica" ed escludere la presenza di anomalie come le trisomie (presenza di tre cromosomi anziché due) come quella del cromosoma 21, che è all'origine della sindrome di Down.

La carta di identità del feto


Il DNA fetale fino a oggi, si è già in parte rivelato utile. Infatti studi hanno dimostrato che la sua quantità tende ad aumentare quando è presente la trisomia 21, quindi già una semplice analisi quantitativa potrebbe dare una prima risposta. Questo però non basta: l'ideale è poter condurre l'analisi del cariotipo del feto solo con quanto si riesce a recuperare dal sangue prelevato. Un passo avanti è l'uso della reazione a catena della polimerasi, un sistema che amplifica per così dire fotocopiandolo, il DNA trovato. Si tratta però di una tecnica costosa e non rapidissima che tuttavia ha consentito la determinazione della presenza o meno del fattore rH, che può determinare l'incompatibilità tra sangue materno e sangue del feto. L'innovazione più utile è storia di questi giorni: negli Stati Uniti è stato messo a punto un sistema che consente di "concentrare" il DNA fetale presente nel sangue materno e, anche di migliorarne la qualità, così da poter condurre in modo più semplice e rapido tutte le analisi finora eseguibili solo con i test invasivi.

Senza rompere la doppia elica


Come spiegato in un articolo della rivista JAMA, il sangue prelevato viene trattato con una sostanza, la formaldeide, che preserva la struttura del DNA, dopodiché grazie a una speciale centrifuga, il materiale genetico viene separato applicando però una forza nettamente inferiore a quella delle procedure standard, evitandone la rottura. Messa a punto da un'azienda di biotecnologie, la Ravgen, la nuova metodica consente di estrarre dal sangue materno una quantità quattro volte superiore al normale.
Questa scoperta, però, apre nuove possibilità anche per la tutela della salute della gravida. Infatti, qualsiasi aumento del DNA fetale trovato nella circolazione materna indica che qualcosa non va nella placenta, soprattutto nelle ultime otto settimane di gestazione. Poterlo scoprire in un modo così poco invasivo può rendere più tempestiva la corsa ai ripari. Sempre con la stessa determinazione quantitativa è poi possibile monitorare altre complicanze, come la preeclampsia, cioè l'aumento della pressione arteriosa della futura mamma, che se incontrollato può anche avere conseguenze fatali.

Maurizio Imperiali



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