Triste cicogna

20 aprile 2007
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Triste cicogna



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La possibilità di morire a seguito del parto, negli Stati Uniti o in Europa, insomma in Occidente, è pari a 1 caso ogni 2800, nell’Africa Subsahariana, le donne che muoiono durante il parto sono una ogni 16. Una differenza agghiacciante, che è sì il frutto di condizioni storiche, di assetto economico mondiale, ma anche di errori strategici da parte di chi, compresa l’Organizzazione mondiale della sanità, ha retto la politica di riduzione del fenomeno.

La prevenzione non basta


E’ questo il messaggio più importante di un recente editoriale del New England Journal of Medicine, che spiega come sia stata sottovalutata l’importanza di poter disporre di un’adeguata assistenza al parto, mentre si è pensato, in parte a ragione, di poter intervenire sui fattori di rischio cioè di poter prevenire la morte del neonato e della madre agendo a monte del momento del parto, per esempio con le vaccinazioni, e anche subito dopo, con politiche che promuovessero per esempio l’allattamento al seno. Il fatto è che non tutte le complicanze del parto possono essere previste e tantomeno prevenute: inevitabilmente può accadere, e accade spesso, che si debba intervenire direttamente.
Questa scelta, che obbediva anche a criteri di fattibilità pratica, partiva dal presupposto che assicurare un’adeguata assistenza al parto richiedesse ospedali moderni, ad alta tecnologia: quindi investimenti, infrastrutture, personale ad alta specializzazione. In realtà questo non è del tutto vero, in quanto basterebbero presidi dotati di alcuni semplici, ma fondamentali, strumenti: solfato di magnesio per trattare la pre-eclampsia, antibiotici e la minima dotazione chirurgica necessaria a effettuare il taglio cesareo.
Non basta, dunque, che le persone che tradizionalmente assistono il parto, le anziane dei villaggi, per esempio, nelle case siano istruite sui requisiti igienici di base, come fatto finora. Bisogna prevedere strutture di primo livello, dove vi siano ostetriche o infermiere capaci di assistere i parti normali delle donne che potrebbero presentare difficoltà, ma anche di inviare i casi complessi a una struttura di secondo livello. Servono iperspecialisti? Non pare: in Mozambico sono stati istruiti dei tecnici di chirurgia, non medici, all’esecuzione dei cesarei e la stessa strada viene oggi percorsa in Malawi e Tanzania; in India, dove comunque la situazione e decisamente migliore, i medici di famiglia vengono specificamente formati alle emergenze ostetriche. Insomma, molto si può fare non disperdendo fondi, competenze e risorse umane.

Conseguenze invalidanti


Altri due aspetti, comunque, danno il segno di questa tragedia (emergenza, ormai, è un termine svalutato). Il primo è che per ogni donna che muore di parto, 30 rimangono invalide. Una delle principali cause è la fistola ostetrica, vale a dire la formazione di un passaggio tra la vescica o il retto e l’utero con perdite quindi di urina o feci incontrollabili; la fistola è una diretta conseguenza del prolungarsi del travaglio. Al di là delle immaginabili conseguenze mediche, la fistola ostetrica è considerata una condizione vergognosa e spesso le donne che ne sono afllitte vengo isolate dala comunità. Quante sono in questa condizione, diffusa soprattutto in Africa susbsahariana e Asia meridionale? Una stima prudente parla di due milioni.
L’altro aspetto è che oltretutto le famiglie pagano molto caro anche quel poco di assistenza che c’è: vanno comprati sul mercato i farmaci, il trasporto verso i pochi centri esistenti, persino l’accesso alle cure, grazie a una pratica sistematica di corruzione.
Con questo deve fare i conti l’impegno dell’OMS di ridurre entro il 2015 la mortalità materna del 75%. E’ impossibile? Non è detto: in Sri Lanka e in Malesia, negli anni cinquanta, la mortalità legata al parto era pari a 500 casi ogni 100.000 nati vivi. Con una politica oculata, nelle decadi successive entrambi i paesi dimezzavano questa quota ogni 6-12 anni.

Maurizio Imperiali



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