03 marzo 2004
Aggiornamenti e focus
Ancora discussione sull'ormone
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In qualsiasi dizionario o enciclopedia medica il termine menopausa viene indicato come cessazione del flusso mestruale nella vita della donna, e da nessuna parte ciò è associato alla parola malattia. La comunità medico scientifica concorda sul fatto che non è la menopausa a essere un problema, quanto le conseguenze di questa sulla salute femminile. Inoltre, per quanto sia un'evoluzione naturale della sua vita biologica, la donna in realtà non era programmata per sopravvivere a questa fase: un'aspettativa di vita di 80 anni è una realtà che risale al ventesimo secolo, nel secolo precedente non superava i 50.
Sulla necessità e sulle modalità con le quali intervenire si discute ancora e, dopo i recenti sviluppi della ricerca clinica, le posizioni sono ancora discordanti anche se con una prevalenza di quelle negative. Ecco perché alcuni ricercatori clinici, tra i quali Richard Gray, professore di statistica medica della Clinical Trials Unit dell'Università di Birmingham, James Fiorica, professore di ostetricia e ginecologia della University of South Florida, Samuel Shapiro, del Dipartimento di Epidemiologia della Columbia University hanno avvertito la necessità di affermare il proprio parere favorevole alla terapia ormonale sostitutiva. E lo hanno fatto durante l'11° Congresso Mondiale di Endocrinologia Ginecologica conclusosi domenica scorsa a Firenze.
La controversia ha avuto inizio nell'estate del 2002 quando due studi americani (Heart and Estrogen/progestin Replacement Study e Women's Health Initiative) dichiararono che la terapia ormonale sostitutiva aumentava al rischio di tumore del seno. L'eco della notizia fece il giro del mondo con conseguente scompiglio per le dirette interessate e per i medici che le avevano in cura. Circa un anno dopo Lancet pubblicò un terzo studio della discordia, questa volta anglosassone, il cosiddetto Million Women Study (MWS) chiamato così proprio perché il campione in osservazione era costituito da più di un milione di donne. Ed è su questo che studio che verteva la sessione plenaria del Congresso fiorentino durante la quale i firmatari hanno espresso le proprie perplessità a livello di metodologia e di interpretazione dei risultati ottenuti.
Tra il 1996 e il 2001 sono state coinvolte un milione e 84mila donne di età compresa tra 50 e 64 anni; è stato loro domandato di fornire informazioni sulla loro esperienza con la terapia ormonale sostitutiva e sono state seguite per valutare l'incidenza del tumore e la mortalità. Uno studio osservazionale, quindi, basato su un questionario e sull'invito a eseguire il controllo mammografico di routine.
Dai risultati emergeva inequivocabilmente un aumentato rischio, per altro già noto, di tumore al seno nelle donne che facevano uso della terapia, rischio che però si abbassava qualora la terapia fosse stata sospesa e in ogni caso era la combinazione estrogeno-progestinico che dava gli effetti più forti.
Per quanto la matematica non sia un'opinione, a volte i numeri vanno letti sotto più punti di vista per valutare tutte le possibili interpretazioni. Quello che il Million Women Study riportava è un ulteriore aumento, rispetto a quanto riscontrato nei precedenti studi, del rischio relativo di tumore al seno delle donne che assumono gli ormoni, che passava da 1,33 previsto dal WHI a 1,66. Un aumento quindi del 30%, una quantità notevole che però perde di forza quando si trasforma in 2 casi in più su 1000 donne trattate dopo 5 anni di terapia, rispetto a quelle che non ne fanno uso. Quindi, accorpando i risultati dei due studi, il rischio si traduce in 2-6 casi in più su 1000 donne dopo 5 anni, e di 6-19 casi in più su 1000 dopo 10 anni di terapia.
In definitiva, ciò che i firmatari della manifesto di consenso affermano è che la terapia ormonale sostitutiva è ben lontana dall'essere cancerogena e, anche se non si può ancora definire se induca o promuova il carcinoma mammario, certo è che il rischio si annulla del tutto dopo 5 anni dalla sospensione del trattamento. Questo significa che se la paziente è predisposta a sviluppare il tumore, la terapia anticipa la manifestazione della patologia, in un regime di controllo mammografico periodico, che permette di riconoscere precocemente il male, per altro meno aggressivo, e di intervenire tempestivamente, smaschera cioè una predisposizione alla malattia.
Metodologia discutibile
Gli interventi dei ricercatori firmatari hanno anche sottolineati i possibili limiti metodologici dell'MWS che possono aver dato luogo a bias cioè abbiano almeno parzialmente invalidato i risultati. Innanzitutto il carattere osservazionale dello studio basato su questionario non permette di riconoscergli la possibilità di provare le osservazioni cliniche. In secondo luogo, il reclutamento delle pazienti non ha seguito un criterio di selezione che escludesse donne a rischio (per età o per familiarità della patologia) alle quali, per lo meno in Europa, la terapia ormonale sostitutiva non viene prescritta.
Ancora una volta si è di fronte a un trattamento farmacologico non perfetto, che ha dei benefici riconosciuti per le donne in menopausa ma anche dei rischi, e richiede una valutazione di questo bilancio in base alle caratteristiche individuali sia all'inizio sia durante l'assunzione degli ormoni.
Simona Zazzetta
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...e inoltre su Dica33:
Sulla necessità e sulle modalità con le quali intervenire si discute ancora e, dopo i recenti sviluppi della ricerca clinica, le posizioni sono ancora discordanti anche se con una prevalenza di quelle negative. Ecco perché alcuni ricercatori clinici, tra i quali Richard Gray, professore di statistica medica della Clinical Trials Unit dell'Università di Birmingham, James Fiorica, professore di ostetricia e ginecologia della University of South Florida, Samuel Shapiro, del Dipartimento di Epidemiologia della Columbia University hanno avvertito la necessità di affermare il proprio parere favorevole alla terapia ormonale sostitutiva. E lo hanno fatto durante l'11° Congresso Mondiale di Endocrinologia Ginecologica conclusosi domenica scorsa a Firenze.
Per un milione di donne
La controversia ha avuto inizio nell'estate del 2002 quando due studi americani (Heart and Estrogen/progestin Replacement Study e Women's Health Initiative) dichiararono che la terapia ormonale sostitutiva aumentava al rischio di tumore del seno. L'eco della notizia fece il giro del mondo con conseguente scompiglio per le dirette interessate e per i medici che le avevano in cura. Circa un anno dopo Lancet pubblicò un terzo studio della discordia, questa volta anglosassone, il cosiddetto Million Women Study (MWS) chiamato così proprio perché il campione in osservazione era costituito da più di un milione di donne. Ed è su questo che studio che verteva la sessione plenaria del Congresso fiorentino durante la quale i firmatari hanno espresso le proprie perplessità a livello di metodologia e di interpretazione dei risultati ottenuti.
Tra il 1996 e il 2001 sono state coinvolte un milione e 84mila donne di età compresa tra 50 e 64 anni; è stato loro domandato di fornire informazioni sulla loro esperienza con la terapia ormonale sostitutiva e sono state seguite per valutare l'incidenza del tumore e la mortalità. Uno studio osservazionale, quindi, basato su un questionario e sull'invito a eseguire il controllo mammografico di routine.
Dai risultati emergeva inequivocabilmente un aumentato rischio, per altro già noto, di tumore al seno nelle donne che facevano uso della terapia, rischio che però si abbassava qualora la terapia fosse stata sospesa e in ogni caso era la combinazione estrogeno-progestinico che dava gli effetti più forti.
Numeri non sentenze
Per quanto la matematica non sia un'opinione, a volte i numeri vanno letti sotto più punti di vista per valutare tutte le possibili interpretazioni. Quello che il Million Women Study riportava è un ulteriore aumento, rispetto a quanto riscontrato nei precedenti studi, del rischio relativo di tumore al seno delle donne che assumono gli ormoni, che passava da 1,33 previsto dal WHI a 1,66. Un aumento quindi del 30%, una quantità notevole che però perde di forza quando si trasforma in 2 casi in più su 1000 donne trattate dopo 5 anni di terapia, rispetto a quelle che non ne fanno uso. Quindi, accorpando i risultati dei due studi, il rischio si traduce in 2-6 casi in più su 1000 donne dopo 5 anni, e di 6-19 casi in più su 1000 dopo 10 anni di terapia.
In definitiva, ciò che i firmatari della manifesto di consenso affermano è che la terapia ormonale sostitutiva è ben lontana dall'essere cancerogena e, anche se non si può ancora definire se induca o promuova il carcinoma mammario, certo è che il rischio si annulla del tutto dopo 5 anni dalla sospensione del trattamento. Questo significa che se la paziente è predisposta a sviluppare il tumore, la terapia anticipa la manifestazione della patologia, in un regime di controllo mammografico periodico, che permette di riconoscere precocemente il male, per altro meno aggressivo, e di intervenire tempestivamente, smaschera cioè una predisposizione alla malattia.
Metodologia discutibile
Gli interventi dei ricercatori firmatari hanno anche sottolineati i possibili limiti metodologici dell'MWS che possono aver dato luogo a bias cioè abbiano almeno parzialmente invalidato i risultati. Innanzitutto il carattere osservazionale dello studio basato su questionario non permette di riconoscergli la possibilità di provare le osservazioni cliniche. In secondo luogo, il reclutamento delle pazienti non ha seguito un criterio di selezione che escludesse donne a rischio (per età o per familiarità della patologia) alle quali, per lo meno in Europa, la terapia ormonale sostitutiva non viene prescritta.
Ancora una volta si è di fronte a un trattamento farmacologico non perfetto, che ha dei benefici riconosciuti per le donne in menopausa ma anche dei rischi, e richiede una valutazione di questo bilancio in base alle caratteristiche individuali sia all'inizio sia durante l'assunzione degli ormoni.
Simona Zazzetta
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