11 maggio 2007
Aggiornamenti e focus
Restano le ombre sulla HAART
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L'introduzione della terapia antiretrovirale nella clinica ha trasformato radicalmente il destino dei pazienti infetti da HIV. L'infezione anziché diventare una malattia rapidamente fatale, come era l'AIDS fino a qualche tempo fa, è rimasta una patologia cronica alla quale si sopravvive per oltre 20 anni. Questo scenario ha iniziato a delinearsi dopo il 1996 con la diffusione di farmaci inibitori di proteasi, tuttora previsti nel regime antiretrovirale (HAART, Highly Active Antiretroviral Therapy), ma a distanza di pochi anni seguirono anche alcuni casi di infarto acuto del miocardio e di malattie vascolari aterosclerotiche premature che interessavano la popolazione di pazienti in HAART.
L'attenzione venne focalizzata sugli inibitori della proteasi e il gruppo di studio DAD (Data Collection on Adverse Events of Anti-HIV Drugs) nel 2003 rilevò un incremento del 26% del rischio cardiovascolare in chi li assumeva. L'ipotesi più perseguita implicava il profilo lipidico con possibilità di lipodistrofie associate a disordini metabolici (iperlipidemia, resistenza insulinica). In un editoriale comparso sulla rivista AIDS, ricercatori italiani prospettarono la possibilità di una bomba a orologeria che sarebbe potuta esplodere considerando il numero dei pazienti in terapia antiretrovirale e i rischi a cui andavano incontro. Le proiezioni e i dati che si ottennero in seguito in realtà non risultarono coerenti, ma l'associazione rimase poco definita anche per limiti metodologici degli studi condotti. Le ricerche in merito sono state recentemente riavviate con studi prospettici progettati meglio per chiarire le interazioni complesse tra l'uso della HAART, l'infezione e il rischio cardiovascolare. Lo studio SMART (Strategies for Management of Antiretroviral Therapy) verificò nel 2006 che nel breve termine (24 settimane) la terapia riduceva il rischio cardiovascolare.
A distanza di quattro anni dalla precedente pubblicazione, lo studio DAD ha fornito ulteriori informazioni sul lungo termine. La stessa popolazione di circa 23 mila pazienti è stata osservata per quattro anni e mezzo, in media e a parità di fattori di rischio cardiovascolari (escludendo il profilo lipidico) la probabilità di un evento aumentava del 16% per anno. Con altri farmaci antiretrovirali, gli inibitori della trascrittasi inversa non-nucleosidici, il rischio aumentava del 5% per anno. A parità di livello di lipidi, di ipertensione e di diabete il rischio scendeva al 10% con gli inibitori della proteasi e si annullava per gli inibitori della trascrittasi. Secondo gli autori le dislipedemie non spiegano completamente l'aumento del rischio che resta ancora da spiegare. Uno dei possibili meccanismi, suggerito dal modello animale, propone che siano gli inibitori di proteasi dell'HIV che promuovono direttamente a livello cellulare l'aterosclerosi. E ci tengono a sottolineare, nelle loro conclusioni, che il rischio rilevato non è poi così diverso da quello che presentano persone con il diabete o con l'abitudine al fumo. Quindi affinché l'effetto della terapia si traduca in un rischio aggiuntivo, deve esserci un preesistente profilo di rischio cardiovascolare. Sul quale è possibile intervenire per modificarlo e migliorarlo, per l'infezione da HIV, invece, per ora non ci sono molte alternative.
Simona Zazzetta
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Ricerche a breve termine
L'attenzione venne focalizzata sugli inibitori della proteasi e il gruppo di studio DAD (Data Collection on Adverse Events of Anti-HIV Drugs) nel 2003 rilevò un incremento del 26% del rischio cardiovascolare in chi li assumeva. L'ipotesi più perseguita implicava il profilo lipidico con possibilità di lipodistrofie associate a disordini metabolici (iperlipidemia, resistenza insulinica). In un editoriale comparso sulla rivista AIDS, ricercatori italiani prospettarono la possibilità di una bomba a orologeria che sarebbe potuta esplodere considerando il numero dei pazienti in terapia antiretrovirale e i rischi a cui andavano incontro. Le proiezioni e i dati che si ottennero in seguito in realtà non risultarono coerenti, ma l'associazione rimase poco definita anche per limiti metodologici degli studi condotti. Le ricerche in merito sono state recentemente riavviate con studi prospettici progettati meglio per chiarire le interazioni complesse tra l'uso della HAART, l'infezione e il rischio cardiovascolare. Lo studio SMART (Strategies for Management of Antiretroviral Therapy) verificò nel 2006 che nel breve termine (24 settimane) la terapia riduceva il rischio cardiovascolare.
Ultime notizie
A distanza di quattro anni dalla precedente pubblicazione, lo studio DAD ha fornito ulteriori informazioni sul lungo termine. La stessa popolazione di circa 23 mila pazienti è stata osservata per quattro anni e mezzo, in media e a parità di fattori di rischio cardiovascolari (escludendo il profilo lipidico) la probabilità di un evento aumentava del 16% per anno. Con altri farmaci antiretrovirali, gli inibitori della trascrittasi inversa non-nucleosidici, il rischio aumentava del 5% per anno. A parità di livello di lipidi, di ipertensione e di diabete il rischio scendeva al 10% con gli inibitori della proteasi e si annullava per gli inibitori della trascrittasi. Secondo gli autori le dislipedemie non spiegano completamente l'aumento del rischio che resta ancora da spiegare. Uno dei possibili meccanismi, suggerito dal modello animale, propone che siano gli inibitori di proteasi dell'HIV che promuovono direttamente a livello cellulare l'aterosclerosi. E ci tengono a sottolineare, nelle loro conclusioni, che il rischio rilevato non è poi così diverso da quello che presentano persone con il diabete o con l'abitudine al fumo. Quindi affinché l'effetto della terapia si traduca in un rischio aggiuntivo, deve esserci un preesistente profilo di rischio cardiovascolare. Sul quale è possibile intervenire per modificarlo e migliorarlo, per l'infezione da HIV, invece, per ora non ci sono molte alternative.
Simona Zazzetta
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