28 novembre 2003
Aggiornamenti e focus
Ingresso vietato all'HIV
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Se finora le terapie antiretrovirali per trattare le infezioni da HIV-1, hanno avuto come bersaglio alcuni enzimi virali, un nuovo approccio sembra avere successo nell'aggredire il virus prima che esso entri nella cellula ospite. L'idea di anticipare l'attacco virale alle cellule deriva dall'osservazione delle modalità con cui l'HIV-1 aderisce e si fonde con la cellula bersaglio.
I microbiologi hanno dimostrato che il virus possiede un tropismo per alcune cellule del sistema immunitario, vale a dire che esso sceglie quali cellule infettare, nella fattispecie i linfociti che presentano una particolare proteina di superficie, la CD4. Ma ciò non è sufficiente per impadronirsi della cellula, il virus, infatti, si avvale di alcuni recettori, in particolare dei recettori 4 o 5 delle chemochine, o di entrambi, per entrare. Non a caso, mutazioni genetiche dell'espressione di tali recettori impedisce che alcuni soggetti, nonostante siano esposti al virus, vengano infettati.
Un altro elemento rilevante, durante il processo di fusione del virus con la membrana cellulare, è il ruolo delle glicoproteine virali che intervallano il doppio strato lipidico, "rubato" alla cellula ospite, che nel complesso riveste la particella virale. In particolare, l'infettività dell'HIV-1 richiede la subunità gp120 e gp41, della glicoproteina virale gp160. E' proprio una regione della gp120, la V3-loop che determina l'affinità con il recettore delle chemochine, mentre la gp41 media la fusione tra l'envelope virale e la membrana cellulare.
Una volta individuati i meccanismi che determinano la fusione e l'ingresso del virus nella cellula, essi stessi diventano il bersaglio dei nuovi farmaci.
I primi tentativi interessarono l'interazione tra la gp120 e la CD4. Un ricombinante solubile del CD4 ha dimostrato, in vitro, di inibire l'infezione da HIV legandosi competitivamente con il recettore della glicoproteina. Sono in studio anche anticorpi monoclonali contro la proteina CD4 che agiscono ostacolando il virus nel legame con il recettore delle chemochine, e alcune piccole molecole che legano la gp120 impedendone l'interazione con la CD4.
Altre categorie di farmaci in via di sviluppo sono le molecole che bloccano i recettori 4 e 5 delle chemochine e quelle che impediscono l'adesione del virus alla membrana legando la gp120 oppure la CD4 interferendo con la loro interazione.
Una terza strategia è l'inibizione della fusione virus-cellula; i farmaci in studio sono piccole molecole proteiche che intervengono sulla subunità gp41. Sono peptidi sintetici copia di segmenti aminoacidici della gp41 stessa alla quale si legano competitivamente quando la glicoproteina si trova in una particolare conformazione durante il processo di fusione.
Di questi peptidi il più promettente, avendo superato con successo la fase III, è il T-20, oggi noto come enfuvirtide.
L'enfuvirtide è una molecola di 36 aminoacidi, per ora somministrata solo con iniezioni sottocutanee nell'addome, la cui efficacia è stata testata in due grandi studi, il TORO1 e il TORO2, realizzati, rispettivamente, in Stati Uniti, Canada, Messico e Brasile e in Europa e Australia. I pazienti, circa 500 in ogni studio, avevano seguito per almeno sei mesi terapie antiretrovirali oppure avevano dimostrato resistenza a questi farmaci, oppure si presentavano con entrambe le circostanze. Ad alcuni di loro veniva quindi aggiunto l'enfuvirtide: dosi da 90mg due volte al giorno.
Dopo 24 settimane era già possibile registrare una riduzione della carica virale nel gruppo trattato anche con il nuovo farmaco, significativamente maggiore rispetto al gruppo controllo in regime solo antiretrovirale.
Il tipo di somministrazione rappresenta tuttavia la causa della maggior parte degli eventi avversi: circa il 98% dei pazienti manifestava reazioni locali nell'area di iniezione. Si trattava di disturbi tipicamente leggeri, indurimenti, noduli, cisti, eritema, e comunque senza dolore così intenso da impedire le normali attività del paziente.
L'enfuvirtide ha recentemente avuto l'approvazione del Food and Drugs Administration ma la sua produzione richiede ancora un processo molto complesso e costoso e per quanto gli esiti dei due studi siano promettenti, non assicurano certo una cura per l'infezione da HIV adatta a tutti i pazienti sia per le condizioni cliniche sia per quelle economiche.
Simona Zazzetta
Salute oggi:
...e inoltre su Dica33:
I microbiologi hanno dimostrato che il virus possiede un tropismo per alcune cellule del sistema immunitario, vale a dire che esso sceglie quali cellule infettare, nella fattispecie i linfociti che presentano una particolare proteina di superficie, la CD4. Ma ciò non è sufficiente per impadronirsi della cellula, il virus, infatti, si avvale di alcuni recettori, in particolare dei recettori 4 o 5 delle chemochine, o di entrambi, per entrare. Non a caso, mutazioni genetiche dell'espressione di tali recettori impedisce che alcuni soggetti, nonostante siano esposti al virus, vengano infettati.
Un altro elemento rilevante, durante il processo di fusione del virus con la membrana cellulare, è il ruolo delle glicoproteine virali che intervallano il doppio strato lipidico, "rubato" alla cellula ospite, che nel complesso riveste la particella virale. In particolare, l'infettività dell'HIV-1 richiede la subunità gp120 e gp41, della glicoproteina virale gp160. E' proprio una regione della gp120, la V3-loop che determina l'affinità con il recettore delle chemochine, mentre la gp41 media la fusione tra l'envelope virale e la membrana cellulare.
Strategie mirate
Una volta individuati i meccanismi che determinano la fusione e l'ingresso del virus nella cellula, essi stessi diventano il bersaglio dei nuovi farmaci.
I primi tentativi interessarono l'interazione tra la gp120 e la CD4. Un ricombinante solubile del CD4 ha dimostrato, in vitro, di inibire l'infezione da HIV legandosi competitivamente con il recettore della glicoproteina. Sono in studio anche anticorpi monoclonali contro la proteina CD4 che agiscono ostacolando il virus nel legame con il recettore delle chemochine, e alcune piccole molecole che legano la gp120 impedendone l'interazione con la CD4.
Altre categorie di farmaci in via di sviluppo sono le molecole che bloccano i recettori 4 e 5 delle chemochine e quelle che impediscono l'adesione del virus alla membrana legando la gp120 oppure la CD4 interferendo con la loro interazione.
Una terza strategia è l'inibizione della fusione virus-cellula; i farmaci in studio sono piccole molecole proteiche che intervengono sulla subunità gp41. Sono peptidi sintetici copia di segmenti aminoacidici della gp41 stessa alla quale si legano competitivamente quando la glicoproteina si trova in una particolare conformazione durante il processo di fusione.
Di questi peptidi il più promettente, avendo superato con successo la fase III, è il T-20, oggi noto come enfuvirtide.
Efficacia provata
L'enfuvirtide è una molecola di 36 aminoacidi, per ora somministrata solo con iniezioni sottocutanee nell'addome, la cui efficacia è stata testata in due grandi studi, il TORO1 e il TORO2, realizzati, rispettivamente, in Stati Uniti, Canada, Messico e Brasile e in Europa e Australia. I pazienti, circa 500 in ogni studio, avevano seguito per almeno sei mesi terapie antiretrovirali oppure avevano dimostrato resistenza a questi farmaci, oppure si presentavano con entrambe le circostanze. Ad alcuni di loro veniva quindi aggiunto l'enfuvirtide: dosi da 90mg due volte al giorno.
Dopo 24 settimane era già possibile registrare una riduzione della carica virale nel gruppo trattato anche con il nuovo farmaco, significativamente maggiore rispetto al gruppo controllo in regime solo antiretrovirale.
Il tipo di somministrazione rappresenta tuttavia la causa della maggior parte degli eventi avversi: circa il 98% dei pazienti manifestava reazioni locali nell'area di iniezione. Si trattava di disturbi tipicamente leggeri, indurimenti, noduli, cisti, eritema, e comunque senza dolore così intenso da impedire le normali attività del paziente.
L'enfuvirtide ha recentemente avuto l'approvazione del Food and Drugs Administration ma la sua produzione richiede ancora un processo molto complesso e costoso e per quanto gli esiti dei due studi siano promettenti, non assicurano certo una cura per l'infezione da HIV adatta a tutti i pazienti sia per le condizioni cliniche sia per quelle economiche.
Simona Zazzetta
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