Al polmone fibroso giova l'antiossidante

20 gennaio 2006
Aggiornamenti e focus

Al polmone fibroso giova l'antiossidante



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E’ chiaro che tra le malattie polmonari mortali tutti hanno presente i tumori. Meno note sono altre patiologie, spesso altrettanto gravi e non sempre “rare” o “così rare”. E’ il caso della fibrosi polmonare idiopatica, nella quale si produce una progressiva sostituzione del tessuto polmonare, che è elastico e permeabile, così da permettere la respirazione e lo scambio di ossigeno con il sangue, con altro tessuto, fibroso, appunto, che non ha queste caratteristiche. In sintesi, i polmoni non sono più capaci né di espandersi, né di contrarsi sotto l’azione dei muscoli, né di garantire l’ossigenazione del sangue negli alveoli. Una situazione analoga a quella di altre malattie simili, per esempio quella dovuta alle fibre di amianto, ma sfortunatamente a evoluzione rapida. Non è una malattia diffusissima, ma nemmeno così rara: “per fare un esempio, ha un’incidenza pari a quella del cancro dell’ovaio o dell’insieme delle diverse forme di leucemia” ha spiegato Luca Richeldi, pneumologo dell’Università di Modena e Reggio Emilia, aggiungendo che la sua incidenza è in effetti 20 volte superiore a quella della fibrosi cistica che, pure, è decisamente più nota al pubblico e agli stessi medici, forse in ragione della sua origine genetica. Origine genetica che non è provata per la FPI, pur esistendo forme famigliari; come cause, dunque, si indicano per ora alcuni fattori ambientali, quali il fumo e altre sostanze chimiche, anche se è chiaro che una predisposizione individuale ci deve essere, visto che non tutte le persone esposte sviluppano la fibrosi idiopatica

Poche cure finora


L’occasione di parlare di questa malattia trascurata viene da una novità in campo farmacologico, come sempre avviene. Infatti per la FPI, attualmente, non esistono trattamenti causali di provata efficacia, tanto che la prognosi è sempre infausta: in questo somiglia molto al carcinoma polmonare, visto che la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è molto bassa: il 30% circa, contro il 15% dei tumori polmonari. Per ora il trattamento di questi pazienti è affidato a immunomodulanti, come avviene per alcuni tumori, ma si tratta di cure che possono al limite rallentare la progressione e non hanno un effetto sulla funzionalità respiratoria e, di conseguenza, sulla qualità della vita. E qui si arriva alla novità terapeutica, che si basa su uno dei meccanismi coinvolti in questa, ma anche molte altre malattie: il danno ossidativo. Nelle situazioni in cui vi sono reazioni di ossidazione in carenza di ossigeno, è inevitabile la formazione di sostanze nocive (gli arcinoti radicali liberi), che a loro volta danneggiano le cellule colpite (in questo caso quelle dell’epitelio polmonare) determinandone la morte (apoptosi). E’ chiaro che l’organismo ha meccanismi suoi propri di difesa, e tra questi la produzione di glutatione; qui entra in gioco la novità farmacologica, che peraltro una novità non è. Si tratta della n-acetilcisteina (in sigla, NAC), ben nota da molti anni come mucolitico ma che, impiegata a dosaggi più elevati, ha una forte azione antiossidante. L’uso di questa sostanza è stato al centro di uno dei più vasti studi condotti su questa malattia, battezzato IFIGENIA e cominciato nel 2000, che è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine. IFIGENIA ha coinvolto 182 pazienti, poi suddivisi in due gruppi; a entrambi sono state somministrate le cure standard, ma a uno è stata somministrata anche la NAC a elevati dosaggi.

Meno effetti collaterali


Lo scopo era valutare se questa aggiunta migliorava la funzionalità polmonare, misurando due parametri: la capacità vitale (cioè il volume d’aria massima che i polmoni sono in gradi di espellere dalla posizione di masssima espansione) e la capacità di diffusione alveolo capillare, cioè la misura in cui l’aria nell’alveolo può cedere e raccogliere gas dal sangue. Già dopo un anno di terapia, si è visto che la NAC aveva migliorato entrambi i paramteri (rispettivamente del 9 e del 24%) rispetto al gruppo di controllo. Come ha sottolineato Juergen Behr, pneumologo dell’Università Ludwig-Maximilians e uno degli autori dello studio, è vero che non si sono registrate differenze nella mortalità, anche per la durata dello studio, ma è noto che il peggioramento della funzionalità respiratoria è direttamente collegato alla mortalità. Quindi se questa viene preservata più a lungo è lecito pensare che si avrà un beneficio anche per questo aspetto. Inoltre, la somministrazione dell’antiossidante ha ridotto un importante effetto collaterale dell’immunomodulante impiegato, cioè la mielotossicità.
Viste le scarse opzioni a disposizione, e l’efficacia dimostrata, il farmaco ha visto approvare dall’EMEA (l’agenzia del farmaco europea) la sua richiesta di essere considerato “farmaco orfano” per questa indicazione.

Gianluca Casponi



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