Lo stimolo elettrico funziona

21 aprile 2006
Aggiornamenti e focus

Lo stimolo elettrico funziona



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Dalla sua introduzione per il trattamento della malattia di Parkinson, la levodopa resta ancora il trattamento d'eccellenza, ma le complicazioni non mancano. A distanza di anni, infatti, da 5 a 10, durante i quali il malato ha assunto regolarmente e quotidianamente la levodopa, compaiono numerosi effetti collaterali assai disturbanti, ed in particolare fluttuazioni motorie e ipercinesie. Le prime consistono nel fatto che durante la giornata il malato presenta delle variazioni consistenti nella sua capacità motoria, per cui passa in modo più o meno repentino da una condizione definita on ad una definita off. Le ipercinesie sono i movimenti involontari che si associano e si sovrappongono ai movimenti volontari e che possono interessare tutti i distretti corporei. Problemi che diventano sempre più rilevanti quanto più lunga è la malattia e quanto più si è esposti alla levodopa. Dal 1995 per affrontare queste situazioni è stata introdotta, da ricercatori francesi, la tecnica neurochirurgica della stimolazione elettrica in specifiche aree cerebrali, in particolare il nucleo subtalamico. A distanza di qualche anno cominciano ad apparire le prime casistiche sull'efficacia a lungo termine di questo trattamento. Uno studio apparso sul New England Journal of Medicine ha dato risultati promettenti.

Come funziona


Il sistema è composto da un elettrocatetere collegato da un sottile cavo di estensione a un neurostimolatore, piccolo dispositivo funzionante a batteria, impiantato in zona sotto clavicolare. La stimolazione elettrica continua del nucleo subtalamico blocca i segnali che causano i sintomi della malattia e i pazienti possono ottenere un miglior controllo motorio riducendo significativamente (fino al 50%) la dose della terapia antiparkinsoniana. La riduzione della dose di levodopa, in particolare, si accompagna alla riduzione degli effetti collaterali particolarmente invalidanti. Per regolare la stimolazione, viene utilizzato un piccolo programmatore che comunica mediante radiofrequenza con il neurostimolatore impiantato. Il grande vantaggio di questo sistema risiede nel blocco funzionale modulabile e reversibile della struttura nervosa e bersaglio. Questo significa che se il paziente non vuole più il sistema che gli è stato impiantato, lo si spegne senza alcuna conseguenza. Inoltre è modulabile, consentendo così un'integrazione molto fine della terapia chirurgica con quella farmacologica. Gli svantaggi del sistema vanno dai costi di elettrocateteri e generatori di impulsi alla necessità di addestramento del paziente alla gestione dell'elettrostimolatore.

Lo studio del New England


Lo studio pubblicato sul New England ha preso in considerazione in modo prospettico la stimolazione del nucleo subtalamico in 49 pazienti parkinsoniani seguiti per cinque anni. I ricercatori hanno riscontrato significativi miglioramenti dei classici problemi motori conseguenti all'assunzione della levodopa, in particolare le fluttuazioni motorie che si manifestano nelle fasi off della malattia. Benefici mantenuti nel periodo di follow-up senza evidenza di tolleranza alla stimolazione. Inoltre anche le discinesie sono migliorate significativamente, quando non del tutto eliminate, anche per la contemporanea riduzione dei farmaci dopaminergici.

Rischi da evitare

Non tutti i sintomi sono migliorati comunque. Anzi una serie di disabilità motorie resistenti alla stimolazione, come l'instabilità posturale o il blocco dell'andatura, sono gradualmente peggiorate in alcuni pazienti, così come una serie di disturbi psichiatrici. I rischi, perciò, non mancano, come sottolinea un editoriale che accompagna lo studio. Il sistema richiede, infatti, un notevole impegno congiunto, del neurochirurgo e del neurologo, nell'ottimizzazione dei parametri di stimolazione e della terapia farmacologica in fase postoperatoria, e regolari controlli nel tempo. Importante anche la scelta del target da trattare chirurgicamente. Il candidato ideale deve rispondere ad una serie di requisiti tra cui l'età relativamente giovane, comunque meno di 70 anni, e uno stadio di malattia non troppo avanzato. La persistenza di molti effetti della malattia di Parkinson a prescindere dal trattamento farmacologico o chirurgico - conclude l'editoriale - sottolinea la necessità di ulteriori ricerche sulla patogenesi di questa progressiva e invalidante neurodegenerazione.

Marco Malagutti



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