Spesso c'è sotto qualcos'altro

20 giugno 2008
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Spesso c'è sotto qualcos'altro



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Il DSM IV (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) lo classifica tra le malattie mentali dei bambini. Negli Stati Uniti è molto conosciuto e molto diagnosticato: sembra, infatti, che ne soffra il 3% dei bambini, dai 3 ai 12 anni; in Italia, invece, se ne è parlato molto poco fino a tempi recentissimi.

Come mai questa discrepanza?


Non vi sono dubbi che sia una vera e propria malattia ma i dati sulla sua diffusione in Italia sono contrastanti. Viene allora da chiedersi se sia una patologia sottodiagnosticata perché non riconosciuta dai medici nazionali, oppure se non vi sia un eccesso di medicalizzazione da parte dei colleghi di Oltreoceano. <<Nessuna delle due ipotesi, non stiamo parlando di bambini troppo vivaci>> dice il dottor Alessandro Marchesini, neuropsichiatra infantile, spiegando quanto sia difficile raggiungere una definizione comune. <<I sintomi di disattenzione e iperattività (incapacità di stare fermi), che caratterizzano questo disturbo, sono spesso le manifestazioni evidenti di altre patologie nascoste, come depressione, ansia, psicosi, disturbi dell'umore, disturbi dissociativi, disturbi della personalità. Nel bambino, infatti, le malattie psichiatriche assumono caratteristiche differenti da quelle osservabili nell'adulto, sono mascherate da atteggiamenti apparentemente opposti al reale stato d'animo e, quindi, sono più difficili da scoprire>>.
Il DDAI, o ADHD (Attention Deficit and Hyperactivity Disorder), è un disturbo gravemente invalidante per il bambino, perché compromette le sue capacità di apprendimento e le sue relazioni sociali, portandolo all'esclusione dalle istituzioni scolastiche e dal gruppo di coetanei.
La difficoltà nel mantenere l'attenzione nel tempo fa sì che il bambino si distragga facilmente, senza riuscire a portare a termine le sue occupazioni, siano esse compiti scolastici o giochi ed attività sportive. Scarsa concentrazione e comportamenti impulsivi, con incapacità di aspettare il proprio turno e di rimandare una gratificazione incidono anche sulle attività ludiche, impedendo al bambino di integrarsi piacevolmente con i suoi coetanei. In questo contesto l'iperattività è spesso una forma di difesa, una strategia che il bambino adotta per mascherare a se stesso la frustrazione che gli deriverebbe dal sentirsi escluso e, contemporaneamente, una richiesta di aiuto. In genere sono proprio gli insegnanti a segnalare ai genitori le difficoltà di adattamento dei figli: se lo psichiatra conferma i dubbi, ponendo una diagnosi di DDAI o di altra malattia, diventa prioritario impostare una corretta terapia, piuttosto che cercare una definizione da manuale. Il primo approccio è quasi sempre farmacologico, per ottenere l'attenzione del piccolo paziente e contenerne gli impulsi di iperattività e/o aggressività. Solo dopo aver raggiunto questo traguardo sarà possibile curare il bambino con una psicoterapia adeguata e, contemporaneamente, indagare se vi sia una comorbidità, cioè un'altra patologia o disturbo psichiatrico sottostante, che era nascosto dal DDAI. In caso affermativo la terapia mirerà a risolvere il disturbo primario, con tutta probabilità responsabile anche della comparsa dei sintomi di disattenzione e iperattività.
I farmaci e le sedute di psicoterapia sono molto costosi, in caso di ADHD vengono rimborsati dalle assicurazioni statunitensi e per questo motivo, forse, i medici non ritengono necessarie ulteriori diagnosi. In Italia questa problematica non sussiste: su diagnosi di neuropsichiatri, operanti in strutture riconosciute dal Servizio Sanitario Nazionale, tutte le cure infantili sono a carico del SSN. La famiglia e la scuola, però, devono collaborare con i terapeuti, facendosi carico del supporto psicologico, affettivo ed educativo di questi bambini, che sono un po' "diversi" ma possono imparare ad essere come i loro coetanei.

Elisa Lucchesini



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