Salvavita da usare bene

21 novembre 2002
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Salvavita da usare bene



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Dalla scoperta della penicillina, che ha rivoluzionato il rapporto uomo/batteri, riportando il primo in posizione dominante, la medicina ha fatto passi da gigante. Quelle che una volta erano gravi infezioni, capaci di lasciare danni permanenti quando non mortali, oggi si guariscono completamente in poche settimane. Nonostante le molte vittorie però, ora la medicina sa che non può vincere la guerra contro i batteri. Sì perché questi piccoli microrganismi, invisibili a occhio nudo, sono tremendamente ingegnosi e trovano infiniti modi di sfuggire alle nostre sofisticate armi chimiche. Questo fenomeno, chiamato resistenza, fa sì che un nuovo antibiotico, acclamato per i successi raccolti sul campo, diventi improvvisamente inefficace. Incapace di combattere i batteri per cui era stato creato, si ritrova abbandonato tra le cose vecchie e inservibili, e con esso tutti quelli della medesima classe.

Resistere alla resistenza


Quando un ceppo di batteri incontra un antibiotico per un certo periodo di tempo, lo studia e impara a difendersi da esso, a meno che nessuno dei batteri sopravviva all'incontro. Sembra facile ma è difficilissimo, ed è uno degli obiettivi principali della medicina moderna. Fare in modo, cioè, di utilizzare l'antibiotico solo quando serve, scegliendo fra molti quello che ha più possibilità di successo, impiegandolo solo per il tempo necessario a debellare l'infezione. Raggiungere questi obiettivi significa garantire al paziente una guarigione rapida e duratura, conservando intatto il valore del proprio "armamento".

La teoria


La maggior parte dei batteri può essere coltivata in laboratorio e questo permette di fare molti esperimenti, con uno o più farmaci potenziali, senza che vi debbano essere molti soggetti malati. Scelto un farmaco è così che si scopre: contro quali batteri è efficace, e a quali dosi, qual è il suo meccanismo d'azione.
Conoscere il meccanismo d'azione di un antibiotico è molto importante per stabilirne la posologia. Esistono, infatti, antibiotici la cui efficacia è tempo-dipendente: se restano a contatto con i batteri per un periodo di tempo sufficiente riescono a debellare l'infezione.
Altri antibiotici, invece, sono concentrazione-dipendenti: più elevata è la quantità di antibiotico che raggiunge il sito dell'infezione, meno possibilità di sopravvivenza avranno i batteri.
Nel primo caso (tempo-dipendente) il farmaco dovrà essere somministrato a brevi intervalli di tempo, in modo da mantenere costante la sua presenza nell'organismo. Nel secondo caso le somministrazioni potranno essere più distanziate, purché la dose assunta ogni volta sia sufficientemente elevata.
Questa, appunto, è la teoria: funziona molto bene in laboratorio ma necessita di opportune correzioni quando deve essere applicata ai pazienti.

La pratica

In vivo (la medicina dice così quando si riferisce a ciò che accade all'interno dell'organismo umano) l'antibiotico può incontrare molte barriere. In conseguenza di ciò si riduce la quantità reale di farmaco che raggiunge il sito d'azione e la sua efficacia.
Paradossalmente le barriere sono costruite proprio dal nostro organismo, precisamente da tutti i sistemi infiammatori che vengono attivati dalle difese immunitarie all'arrivo di un microrganismo patogeno. Succede così che nella sede dell'infezione: si accumula materiale purulento, si formano coaguli di fibrina che rivestono i batteri, si occludono i piccoli vasi (dove non arriva sangue non arriva nemmeno il farmaco). Queste sono barriere fisiche che l'antibiotico fa fatica ad attraversare e intanto, durante questo lungo viaggio, i sistemi metabolici hanno tempo di catturare il farmaco e condurlo verso l'escrezione. D'altra parte queste barriere richiedono tempo per diventare ingombranti, all'inizio dell'infezione esse sono poco presenti e l'antibiotico potrebbe agire indisturbato. All'inizio dell'infezione, però, il paziente raramente presenta sintomi evidenti, perciò nessun medico potrebbe stabilire che ha bisogno di un antibiotico.

Il consiglio del pediatra

Un suggerimento autorevole, per interrompere questo circolo vizioso, arriva dalla dottoressa Paola Pecco - dell'Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino - che ha partecipato al XXII Congresso Nazionale di Antibioticoterapia in Età Pediatrica. Secondo quanto fin qui descritto (con le opportune semplificazioni), appare evidente che dosi più elevate possono consentire una miglior penetrazione dell'antibiotico nella sede d'infezione. Indipendentemente dal meccanismo d'azione, tempo o concentrazione-dipendente, l'assunzione di una quantità maggiore, ma pur sempre sicura, di farmaco farà in modo che una quota sufficiente di antibiotico raggiunga i batteri. A sostegno di questa ipotesi, Pecco cita uno studio su 521 bambini con otite media acuta in cui la terapia con dosi elevate ha risolto l'infezione in soli 5 giorni, rispetto ai 10 giorni necessari con la terapia standard.
Accorciare i tempi migliora il rispetto della prescrizione da parte dei bambini e, contemporaneamente, riduce il rischio che si sviluppino ceppi resistenti (come si diceva all'inizio).
Per ora va sottolineato che gli studi in questa direzione sono ancora pochi, ma è possibile che il successo ottenuto nell'otite media acuta possa ripetersi anche con altre patologie infettive del bambino.

Elisa Lucchesini

Fonti
  • XXII Congresso Nazionale di Antibioticoterapia in Età Pediatrica - Milano, 13-14 novembre 2003
  • Dagan R et al. Bacteriologic and clinical efficacy of high dose amoxicillin/clavulanate in children with acute otitis media. Pediatr Infect Dis J. 2001; 20(9):829-37



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