20 giugno 2008
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Tutto gratis? No pagato in anticipo
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Ogni anno, anche se con accenti diversi, quando si approssima la scadenza della legge finanziaria si ritorna a parlare della spesa sanitaria. Di quella pubblica, ovviamente perché quella privata, cioè ciò che ognuno spende di tasca sua, sembra interessare molto meno. E altrettanto ovviamente si parla di spesa sanitaria per dire che è eccessiva o fuori controllo.
Ma è vero? Va detto che sarà ben difficile che un giorno si veda scendere in termini assoluti l'esborso per la tutela della salute, anche perché i progressi in campo medico non vanno necessariamente nella direzione di prestazioni più economiche. Se, per esempio, è provato che si può sostituire la vecchia angiografia coronarica (un esame invasivo e non esente da dolore) con una risonanza magnetica è chiaro che aumenta il confort per il paziente, ma inevitabilmente anche i costi.
Quindi il vero problema non è tanto l'aumento in termini assoluti, quanto l'aumento di quanto l'Italia spende rispetto a quanto produce, cioè il rapporto tra spesa sanitaria e PIL (prodotto interno lordo). E qui l'Italia spendacciona non sembra tale. Infatti negli ultimi anni questa percentuale è andata scendendo: era il 6.6% nel 1991, è passata al 5,6% nel 1998. Nel resto d'Europa, però, soltanto la Spagna aveva un onere inferiore (5,4%). Questa tendenza virtuosa è proseguita: nel 2001 la spesa si attesta attorno al 5,8% del PIL.
Una delle tesi che spesso vengono avanzate, più dai giornali che dagli esperti, però, è che il sistema pubblico faccia spendere di più mentre una "sana privatizzazione" sarebbe la risposta giusta.
Ma per capire come questo giudizio sia poco fondato basta guardare alla spesa degli Stati Uniti, paese dove l'assistenza così come la si conosce in Europa non è mai esistita. In effetti, malgrado la forte tecnologizzazione e la spinta all'innovazione della medicina a stelle e strisce, la spesa pubblica statunitense è pari al 6% circa. Peccato che la spesa complessiva (pubblica più privata) degli Stati Uniti sia di gran lunga superiore a quella italiana: nel 1998 13,6% del PIL contro 8,4. Va aggiunto poi che nessun paese europeo ha mai raggiunto tali livelli, nemmeno la Germania, dove il sistema delle casse malattia è stato spesso uno dei meno "risparmiosi" del Vecchio Continente.
Lo stesso ministro Girolamo Sirchia, del resto, ha convenuto fin da subito che in effetti il Servizio Sanitario è sottofinanziato. E allora? "Il problema sono sempre gli sprechi" dice Livio Garattini "e comunque il prodursi di aumenti delle diverse voci di spesa apparentemente non motivati. E' il caso della spesa per i farmaci, che è aumentata del 35%. Ovviamente si tratta in gran parte dell'effetto dell'abolizione del ticket, ma anche dell'ingresso nel prontuario di nuovi farmaci ad alto costo".
D'altra parte la spesa farmaceutica non è tutto: rappresenta circa il 15% del totale... "In effetti" prosegue Garattini, "la parte più importante è costituita da stipendi: dei medici, del personale paramedico e amministrativo, che nell'anno è cresciuta di circa il 10%". E dietro a questo tipo di eventuali "tagli" ci sono forti resistenze, come è ovvio. "In realtà molte funzioni parcellizzate sul territorio potrebbero essere centralizzate, evitando doppioni e sovrapposizioni. Senza contare che centri più grandi, nei quali trova risposta un maggior numero di pazienti, acquisiscono una maggiore abilità nel trattare le patologie" ricorda Livio Garattini." E d'altra parte, se ormai i cittadini hanno capito che può essere conveniente andare a fare la spesa anche un po' più lontano da casa non si vede perché non dovrebbe valere lo stesso per ottenere una prestazione sanitaria".
Anche un atteggiamento più conservatore nei confronti dell'innovazione può aiutare a contenere la spesa. E' il caso della Gran Bretagna, dove i medici di famiglia sono meno inclini di quelli italiani a prescrivere nuovi farmaci. Un fatto comunque non necessariamente positivo: l'essere affezionati agli antibiotici più vecchi, per esempio, fa sì che la mortalità per polmonite nel Regno Unito sia superiore a quella italiana. "Certo però si dovrebbe valutare, e non soltanto in campo farmaceutico, se tutte le novità rappresentano davvero un'innovazione tale da migliorare le prospettive del paziente".
In realtà è comunque il cittadino che paga: si tratti di ticket o di aumento delle imposte sono sempre e comunque soldi della cittadinanza, e quindi è sostanzialmente scorretto quando si dice che il servizio sanitario concede questa o quella prestazione "gratis". Non c'è niente di gratuito: è tutto pagato dai contribuenti. Ci si potrebbe chiedere allora perché non passare direttamente a uno schema privato su base individuale, magari fidando in una buona salute. Il ragionamento ha un senso, ma in linea teorica. In realtà, anche quando si stipula una polizza per l'auto, la compagnia calcola che siano i tanti che non hanno mai incidenti a sopportare, attraverso il premio che versano ogni anno, i costi dei risarcimenti dovuti ai sinistri dei meno cauti, o semplicemente meno fortunati.
Se si assume questo punto di vista, è chiaro che la compagnia che può praticare prezzi più bassi è quella con più clienti e di qui discende che il prezzo più basso in assoluto lo può praticare un Servizio Sanitario Nazionale cui tutti sono iscritti e tutti sono tenuti a contribuire in ragione delle loro possibilità. Non è un caso che negli Stati Uniti siano poco meno di 41 milioni (41.000.000) i cittadini privi di copertura sanitaria e che l'aumento tra il 2000 e il 2001 sia stato di oltre due milioni di persone: le polizze costano, troppo per chi ha perso il lavoro, o ha come occupazione standard il passare da un lavoro temporaneo all'altro.
Se si restringe la platea dei contribuenti, peraltro, qualsiasi sistema vacilla. Lo prova per esempio il caso della Francia, dove esistono tre grandi casse malattia (come le vecchie mutue italiane) e quella del lavoratori agricoli è in crisi da anni, e viene sostenuta dallo Stato, in quanto per ragioni storiche il numero degli agricoltori è calato inarrestabilmente. Lo stesso accadde alle mutue italiane: non si dimentichi che il Servizio Sanitario attuale è stato creato (con la legge 833 del 1978) anche per la cattiva situazione economica delle mutue di categoria.
Non si tratta quindi di solidarietà, o non soltanto, ma anche di razionalità economica.
Analoghe conseguenze avrebbe anche rendere non obbligatoria l'iscrizione al SSN: in questo modo i più sani, i più ricchi, starebbero fuori dalla contribuzione e dall'erogazione di prestazioni e il Servizio sanitario dovrebbe provvedere ai più malati, ai meno facoltosi, agli anziani. E' quello che succede nel sistema statunitense, che ha due programmi pubblici (Medicare e Medicaid) riservati alle categorie svantaggiate e che erogano prestazioni da sussistenza. Lo prova il fatto che la mortalità nei quartieri poveri delle metropoli statunitensi sia per molti aspetti sovrapponibile a quella del Terzo Mondo.
Esagerazioni? Ma no, è ormai un dato accettato universalmente. Del resto, basta fare caso a qual è la principale preoccupazione dei medici di ER: "L'assicurazione copre o non copre questo farmaco, questo intervento, questo ricovero?" E se non lo copre...
Maurizio Imperiali
Salute oggi:
...e inoltre su Dica33:
Ma è vero? Va detto che sarà ben difficile che un giorno si veda scendere in termini assoluti l'esborso per la tutela della salute, anche perché i progressi in campo medico non vanno necessariamente nella direzione di prestazioni più economiche. Se, per esempio, è provato che si può sostituire la vecchia angiografia coronarica (un esame invasivo e non esente da dolore) con una risonanza magnetica è chiaro che aumenta il confort per il paziente, ma inevitabilmente anche i costi.
Quindi il vero problema non è tanto l'aumento in termini assoluti, quanto l'aumento di quanto l'Italia spende rispetto a quanto produce, cioè il rapporto tra spesa sanitaria e PIL (prodotto interno lordo). E qui l'Italia spendacciona non sembra tale. Infatti negli ultimi anni questa percentuale è andata scendendo: era il 6.6% nel 1991, è passata al 5,6% nel 1998. Nel resto d'Europa, però, soltanto la Spagna aveva un onere inferiore (5,4%). Questa tendenza virtuosa è proseguita: nel 2001 la spesa si attesta attorno al 5,8% del PIL.
Una delle tesi che spesso vengono avanzate, più dai giornali che dagli esperti, però, è che il sistema pubblico faccia spendere di più mentre una "sana privatizzazione" sarebbe la risposta giusta.
Ma per capire come questo giudizio sia poco fondato basta guardare alla spesa degli Stati Uniti, paese dove l'assistenza così come la si conosce in Europa non è mai esistita. In effetti, malgrado la forte tecnologizzazione e la spinta all'innovazione della medicina a stelle e strisce, la spesa pubblica statunitense è pari al 6% circa. Peccato che la spesa complessiva (pubblica più privata) degli Stati Uniti sia di gran lunga superiore a quella italiana: nel 1998 13,6% del PIL contro 8,4. Va aggiunto poi che nessun paese europeo ha mai raggiunto tali livelli, nemmeno la Germania, dove il sistema delle casse malattia è stato spesso uno dei meno "risparmiosi" del Vecchio Continente.
Ma dove si spende?
Lo stesso ministro Girolamo Sirchia, del resto, ha convenuto fin da subito che in effetti il Servizio Sanitario è sottofinanziato. E allora? "Il problema sono sempre gli sprechi" dice Livio Garattini "e comunque il prodursi di aumenti delle diverse voci di spesa apparentemente non motivati. E' il caso della spesa per i farmaci, che è aumentata del 35%. Ovviamente si tratta in gran parte dell'effetto dell'abolizione del ticket, ma anche dell'ingresso nel prontuario di nuovi farmaci ad alto costo".
D'altra parte la spesa farmaceutica non è tutto: rappresenta circa il 15% del totale... "In effetti" prosegue Garattini, "la parte più importante è costituita da stipendi: dei medici, del personale paramedico e amministrativo, che nell'anno è cresciuta di circa il 10%". E dietro a questo tipo di eventuali "tagli" ci sono forti resistenze, come è ovvio. "In realtà molte funzioni parcellizzate sul territorio potrebbero essere centralizzate, evitando doppioni e sovrapposizioni. Senza contare che centri più grandi, nei quali trova risposta un maggior numero di pazienti, acquisiscono una maggiore abilità nel trattare le patologie" ricorda Livio Garattini." E d'altra parte, se ormai i cittadini hanno capito che può essere conveniente andare a fare la spesa anche un po' più lontano da casa non si vede perché non dovrebbe valere lo stesso per ottenere una prestazione sanitaria".
Anche un atteggiamento più conservatore nei confronti dell'innovazione può aiutare a contenere la spesa. E' il caso della Gran Bretagna, dove i medici di famiglia sono meno inclini di quelli italiani a prescrivere nuovi farmaci. Un fatto comunque non necessariamente positivo: l'essere affezionati agli antibiotici più vecchi, per esempio, fa sì che la mortalità per polmonite nel Regno Unito sia superiore a quella italiana. "Certo però si dovrebbe valutare, e non soltanto in campo farmaceutico, se tutte le novità rappresentano davvero un'innovazione tale da migliorare le prospettive del paziente".
E chi paga?
In realtà è comunque il cittadino che paga: si tratti di ticket o di aumento delle imposte sono sempre e comunque soldi della cittadinanza, e quindi è sostanzialmente scorretto quando si dice che il servizio sanitario concede questa o quella prestazione "gratis". Non c'è niente di gratuito: è tutto pagato dai contribuenti. Ci si potrebbe chiedere allora perché non passare direttamente a uno schema privato su base individuale, magari fidando in una buona salute. Il ragionamento ha un senso, ma in linea teorica. In realtà, anche quando si stipula una polizza per l'auto, la compagnia calcola che siano i tanti che non hanno mai incidenti a sopportare, attraverso il premio che versano ogni anno, i costi dei risarcimenti dovuti ai sinistri dei meno cauti, o semplicemente meno fortunati.
Se si assume questo punto di vista, è chiaro che la compagnia che può praticare prezzi più bassi è quella con più clienti e di qui discende che il prezzo più basso in assoluto lo può praticare un Servizio Sanitario Nazionale cui tutti sono iscritti e tutti sono tenuti a contribuire in ragione delle loro possibilità. Non è un caso che negli Stati Uniti siano poco meno di 41 milioni (41.000.000) i cittadini privi di copertura sanitaria e che l'aumento tra il 2000 e il 2001 sia stato di oltre due milioni di persone: le polizze costano, troppo per chi ha perso il lavoro, o ha come occupazione standard il passare da un lavoro temporaneo all'altro.
Se si restringe la platea dei contribuenti, peraltro, qualsiasi sistema vacilla. Lo prova per esempio il caso della Francia, dove esistono tre grandi casse malattia (come le vecchie mutue italiane) e quella del lavoratori agricoli è in crisi da anni, e viene sostenuta dallo Stato, in quanto per ragioni storiche il numero degli agricoltori è calato inarrestabilmente. Lo stesso accadde alle mutue italiane: non si dimentichi che il Servizio Sanitario attuale è stato creato (con la legge 833 del 1978) anche per la cattiva situazione economica delle mutue di categoria.
Non si tratta quindi di solidarietà, o non soltanto, ma anche di razionalità economica.
Analoghe conseguenze avrebbe anche rendere non obbligatoria l'iscrizione al SSN: in questo modo i più sani, i più ricchi, starebbero fuori dalla contribuzione e dall'erogazione di prestazioni e il Servizio sanitario dovrebbe provvedere ai più malati, ai meno facoltosi, agli anziani. E' quello che succede nel sistema statunitense, che ha due programmi pubblici (Medicare e Medicaid) riservati alle categorie svantaggiate e che erogano prestazioni da sussistenza. Lo prova il fatto che la mortalità nei quartieri poveri delle metropoli statunitensi sia per molti aspetti sovrapponibile a quella del Terzo Mondo.
Esagerazioni? Ma no, è ormai un dato accettato universalmente. Del resto, basta fare caso a qual è la principale preoccupazione dei medici di ER: "L'assicurazione copre o non copre questo farmaco, questo intervento, questo ricovero?" E se non lo copre...
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