05 marzo 2008
Aggiornamenti e focus
In tempo contro lo shock settico
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Lo shock settico è una delle condizioni più critiche tra quelle d'urgenza, responsabile di almeno metà delle morti nelle Unità di terapia intensiva; la stima statunitense è per esempio intorno a 215 mila decessi all'anno che è simile a quella dell'infarto miocardico. E' un quadro d'infezione diffusa o sepsi, con ipotensione e ipoperfusione e conseguente insufficienza multiorgano, che può porre problemi già di riconoscimento rapido, data la presentazione poco specifica, ma soprattutto per l'approccio terapeutico: e un fattore determinante, come per l'infarto, è la tempestività dell'intervento. Già diversi studi hanno messo in luce l'importanza di questo fattore, e ora ne è stato pubblicato uno che rinforza le evidenze precedenti mostrando come la vasopressina aggiunta come rinforzo alla noradrenalina nei casi refrattari non riduca la mortalità, essendo in gioco altri aspetti quale appunto il fattore tempo. I problemi quindi, come sottolinea l'editoriale di commento, nascerebbero anche dal fatto che la sensibilità sull'urgenza di trattare nello shock settico non è la stessa che si è sviluppata per esempio per l'infarto miocardico.
Rispetto all'infarto lo shock settico è intanto più difficile da diagnosticare, presentandosi con una costellazione di segni e sintomi comprendente cute calda, tachicardia, tachipnea (respiro accelerato), ipotensione, riduzione dello stato vigile o della diuresi, leucopenia (scarsi globuli bianchi). Quanto al trattamento, alcuni studi hanno dimostrato che sia i supporti cardiovascolari (emotrasfusione, farmaci inotropi e altro) sia gli antibatterici si associano a minore mortalità se s'interviene precocemente, meglio se nella prima ora. In pratica si è visto che va evitato il ritardo di trattamento e che il concetto di "golden hour", l'ora d'oro, andrebbe applicato anche in questo caso come per la riperfusione coronarica nell'infarto. Nello shock settico è essenziale mantenere un'adeguata pressione arteriosa, sufficiente ad assicurare la perfusione dei tessuti; a questo scopo s'infondono liquidi per via venosa e si ricorre a catecolamine, come noradrenalina e vasopressina, ormoni che aumentano la pressione (e il battito cardiaco, la glicemia e altro) ma che per la complessità d'azione producono anche effetti avversi nello shock settico, fino ad aumentare la mortalità. La vasopressina è ridotta durante lo shock e la sua somministrazione ha mostrato un marcato incremento pressorio; la si usa in aggiunta ad altre catecolamine nei casi di shock severo. Non si era ancora accertato però l'eventuale beneficio nel ridurre la mortalità né il profilo di sicurezza: è quanto ha analizzato il nuovo studio.
La ricerca, condotta in centri canadesi, statunitensi e australiani, randomizzata e in doppio cieco, ha riguardato 778 soggetti con shock settico trattati con noradrenalina o con noradrenalina più vasopressina, impiegate in aggiunta ad altre sostanze ad azione vasopressoria. Obiettivo primario era la mortalità a 28 giorni dall'inizio dell'infusione, nell'ipotesi che fosse diversa nei due gruppi: la differenza non è risultata invece significativa, né lo è stata quella a 90 giorni; non significative neppure le differenze per gli effetti collaterali. Anche l'ipotesi che il beneficio della vasopressina sulla mortalità fosse maggiore negli shock settici più severi non si è confermata. Nella discussione si ragiona sul fatto che la mortalità totale più bassa rispetto agli altri studi e i tassi simili di eventi avversi nei due gruppi possono essere dipesi dall'esclusione dei pazienti a rischio (coronaropatici o con insufficienza cardiaca) e dalle bassi dosi di vasopressina, mentre con una popolazione reale di pazienti le cose sarebbero potute essere diverse. E si sottolinea che il tempo medio previsto come criterio d'inclusione per essere sottoposti all'infusione era dodici ore (quello massimo era 24 ore), molto maggiore di quello precedentemente individuato come obiettivo di trattamento precoce cioè sei ore: anche per questo non si sarebbe evidenziato un beneficio della vasopressina rispetto alla noradrenalina. Gli studi precedenti avevano indicato sopravvivenze maggiori per le terapie cardiovascolari e antibiotiche nelle prime sei ore e meglio ancora entro la prima o la seconda, mentre una media di dodici ore può essere troppo protratta per un effetto significativo sulla mortalità indipendentemente dalla sostanza vasopressoria impiegata. In altri termini, come sintetizza efficacemente l'editoriale, a essere decisiva è la tempestività, piuttosto che l'agente terapeutico.
Elettra Vecchia
Salute oggi:
...e inoltre su Dica33:
Rispetto all'infarto lo shock settico è intanto più difficile da diagnosticare, presentandosi con una costellazione di segni e sintomi comprendente cute calda, tachicardia, tachipnea (respiro accelerato), ipotensione, riduzione dello stato vigile o della diuresi, leucopenia (scarsi globuli bianchi). Quanto al trattamento, alcuni studi hanno dimostrato che sia i supporti cardiovascolari (emotrasfusione, farmaci inotropi e altro) sia gli antibatterici si associano a minore mortalità se s'interviene precocemente, meglio se nella prima ora. In pratica si è visto che va evitato il ritardo di trattamento e che il concetto di "golden hour", l'ora d'oro, andrebbe applicato anche in questo caso come per la riperfusione coronarica nell'infarto. Nello shock settico è essenziale mantenere un'adeguata pressione arteriosa, sufficiente ad assicurare la perfusione dei tessuti; a questo scopo s'infondono liquidi per via venosa e si ricorre a catecolamine, come noradrenalina e vasopressina, ormoni che aumentano la pressione (e il battito cardiaco, la glicemia e altro) ma che per la complessità d'azione producono anche effetti avversi nello shock settico, fino ad aumentare la mortalità. La vasopressina è ridotta durante lo shock e la sua somministrazione ha mostrato un marcato incremento pressorio; la si usa in aggiunta ad altre catecolamine nei casi di shock severo. Non si era ancora accertato però l'eventuale beneficio nel ridurre la mortalità né il profilo di sicurezza: è quanto ha analizzato il nuovo studio.
La ricerca, condotta in centri canadesi, statunitensi e australiani, randomizzata e in doppio cieco, ha riguardato 778 soggetti con shock settico trattati con noradrenalina o con noradrenalina più vasopressina, impiegate in aggiunta ad altre sostanze ad azione vasopressoria. Obiettivo primario era la mortalità a 28 giorni dall'inizio dell'infusione, nell'ipotesi che fosse diversa nei due gruppi: la differenza non è risultata invece significativa, né lo è stata quella a 90 giorni; non significative neppure le differenze per gli effetti collaterali. Anche l'ipotesi che il beneficio della vasopressina sulla mortalità fosse maggiore negli shock settici più severi non si è confermata. Nella discussione si ragiona sul fatto che la mortalità totale più bassa rispetto agli altri studi e i tassi simili di eventi avversi nei due gruppi possono essere dipesi dall'esclusione dei pazienti a rischio (coronaropatici o con insufficienza cardiaca) e dalle bassi dosi di vasopressina, mentre con una popolazione reale di pazienti le cose sarebbero potute essere diverse. E si sottolinea che il tempo medio previsto come criterio d'inclusione per essere sottoposti all'infusione era dodici ore (quello massimo era 24 ore), molto maggiore di quello precedentemente individuato come obiettivo di trattamento precoce cioè sei ore: anche per questo non si sarebbe evidenziato un beneficio della vasopressina rispetto alla noradrenalina. Gli studi precedenti avevano indicato sopravvivenze maggiori per le terapie cardiovascolari e antibiotiche nelle prime sei ore e meglio ancora entro la prima o la seconda, mentre una media di dodici ore può essere troppo protratta per un effetto significativo sulla mortalità indipendentemente dalla sostanza vasopressoria impiegata. In altri termini, come sintetizza efficacemente l'editoriale, a essere decisiva è la tempestività, piuttosto che l'agente terapeutico.
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