09 marzo 2007
Aggiornamenti e focus
Poca comunicazione tra colleghi
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Quando un paziente viene dimesso dall'ospedale sarebbe buona norma che il suo medico di famiglia fosse informato di quanto è stato scoperto e fatto durante il ricovero. Anzi, secondo le linee guida statunitensi, il medico ospedaliero dovrebbe discutere con il collega del territorio prima delle dimissioni. Per quanto questa necessità sia universalmente riconosciuta, non è che i comportamenti siano conseguenti, e non soltanto in Italia.Questa la prima e più facile conclusione che trae una revisione statunitense di tutti gli studi pubblicati sul tema dello scambio di informazioni tra curanti. Infatti, sulla base di una settantina di studi di buona qualità, si è visto che raramente la comunicazione è ai livelli richiesti dalle linee guida, e dal buon senso. Per cominciare, soltanto il 3% dei medici di famiglia dichiara di essere stato preavvertito delle imminenti dimissioni di un suo paziente, e la percentuale di quelli che hanno ricevuto sempre una comunicazione della dimissione, è piuttosto bassa: al massimo il 20%.
Di solito, la comunicazione viene fatta in due modi o con delle lettere, spesso scritte a mano, che riassumono la situazione del paziente e vengono consegnate dal paziente stesso o spedite per posta, oppure resoconti dettati dal medico ospedaliero e poi trascritti. E' intuibile che le prime ad arrivare siano le lettere: nella metà dei casi arrivano a destinazione entro sette giorni dall'uscita del paziente dall'ospedale, mentre questo avveiene soltanto per il 14% delle relazioni. In più, circa l'11% delle lettere e il 25% delle relazioni non giunge mai a destinazione.
Ma il medico curante che cosa giudica importante sapere da quello ospedaliero per organizzare al meglio il prosieguo delle cure? Diagnosi riscontrata, risultati di test, riscontri obiettivi, prescrizioni fatte alla dimissione e cambiamenti eventualmente apportati alle terapie seguite prima del ricovero, dettagli sulle eventuali visite di controllo, quali informazioni sono state date al paziente, se ci sono particolari necessità da soddisfare e, infine, se si attendono ancora i risultati di alcuni esami. Tutto abbastanza logico, e anche i medici ospedalieri concordano su questa valutazione. Peccato che poi, dagli studi che hanno verificato le comunicazioni realmente inviate al curante emerge un quadro pieno di omissis. Combinando i risultati dei diversi studi, nel 25% di casi manca l'indicazione del medico responsabile delle cure in ospedale; nel 17,5% manca la diagnosi, nel 38% i risultati degli esami diagnostici, nel 21% l'indicazione dei farmaci prescritti. Questo vale sia per le relazioni sia per le lettere, le quali presentavano spesso, dal 10 al 50%, problemi di leggibilità (forse perchè soltanto i farmacisti leggono a colpo sicuro la grafia dei medici).
In pratica, visto che molto spesso (fino all'80% dei casi) paziente e medico curante entrano in contatto prima che a quest'ultimo siano state fornite le informazioni utili, è il paziente stesso la principale fonte di informazione., con tutti gli inconvenienti del caso. Il peggio avviene con i risultati dei test non disponibili al momento della dimissione. Nel 10% dei casi i risultati erano tali da richiedere un intervento di qualche tipo e, in qualche, caso, un intervento urgente. In definitiva, il 24% dei medici curanti ha detto che la loro gestione delle cure è stata influenzata negativamente dal ritardo o dall'incompletezza delle comunicazioni. Gli autori della ricerca concludono che davvero non c'è una gran comunicazione tra ospedale e territorio e che questo è un mal comune (senza alcun gaudio). Oltretutto, altri studi hanno dimostrato che questa discontinuità nelle cure, che tocca il 50% dei pazienti, si associa a una maggiore probabilità di nuovi ricoveri. Rimedi? I soliti da quando esiste l'informatica: una cartella clinica elettronica che possa essere aggiornata in tempo reale e a accessibile a tutti i medici coinvolti. Più semplice ancora, sarebbe fornire direttamente la copia della cartella clinica al paziente quando varca la soglia dell'ospedale. Peraltro, non è che i medici di famiglia siano esenti da pecche: spesso il paziente viene ricoverato senza una relazione del suo curante. Insomma: bisogna parlarsi, tra medici.
Maurizio Imperiali
Salute oggi:
...e inoltre su Dica33:
Lettere a mano, relazioni dattiloscritte
Di solito, la comunicazione viene fatta in due modi o con delle lettere, spesso scritte a mano, che riassumono la situazione del paziente e vengono consegnate dal paziente stesso o spedite per posta, oppure resoconti dettati dal medico ospedaliero e poi trascritti. E' intuibile che le prime ad arrivare siano le lettere: nella metà dei casi arrivano a destinazione entro sette giorni dall'uscita del paziente dall'ospedale, mentre questo avveiene soltanto per il 14% delle relazioni. In più, circa l'11% delle lettere e il 25% delle relazioni non giunge mai a destinazione.
Ma il medico curante che cosa giudica importante sapere da quello ospedaliero per organizzare al meglio il prosieguo delle cure? Diagnosi riscontrata, risultati di test, riscontri obiettivi, prescrizioni fatte alla dimissione e cambiamenti eventualmente apportati alle terapie seguite prima del ricovero, dettagli sulle eventuali visite di controllo, quali informazioni sono state date al paziente, se ci sono particolari necessità da soddisfare e, infine, se si attendono ancora i risultati di alcuni esami. Tutto abbastanza logico, e anche i medici ospedalieri concordano su questa valutazione. Peccato che poi, dagli studi che hanno verificato le comunicazioni realmente inviate al curante emerge un quadro pieno di omissis. Combinando i risultati dei diversi studi, nel 25% di casi manca l'indicazione del medico responsabile delle cure in ospedale; nel 17,5% manca la diagnosi, nel 38% i risultati degli esami diagnostici, nel 21% l'indicazione dei farmaci prescritti. Questo vale sia per le relazioni sia per le lettere, le quali presentavano spesso, dal 10 al 50%, problemi di leggibilità (forse perchè soltanto i farmacisti leggono a colpo sicuro la grafia dei medici).
Meglio affidarsi al paziente?
In pratica, visto che molto spesso (fino all'80% dei casi) paziente e medico curante entrano in contatto prima che a quest'ultimo siano state fornite le informazioni utili, è il paziente stesso la principale fonte di informazione., con tutti gli inconvenienti del caso. Il peggio avviene con i risultati dei test non disponibili al momento della dimissione. Nel 10% dei casi i risultati erano tali da richiedere un intervento di qualche tipo e, in qualche, caso, un intervento urgente. In definitiva, il 24% dei medici curanti ha detto che la loro gestione delle cure è stata influenzata negativamente dal ritardo o dall'incompletezza delle comunicazioni. Gli autori della ricerca concludono che davvero non c'è una gran comunicazione tra ospedale e territorio e che questo è un mal comune (senza alcun gaudio). Oltretutto, altri studi hanno dimostrato che questa discontinuità nelle cure, che tocca il 50% dei pazienti, si associa a una maggiore probabilità di nuovi ricoveri. Rimedi? I soliti da quando esiste l'informatica: una cartella clinica elettronica che possa essere aggiornata in tempo reale e a accessibile a tutti i medici coinvolti. Più semplice ancora, sarebbe fornire direttamente la copia della cartella clinica al paziente quando varca la soglia dell'ospedale. Peraltro, non è che i medici di famiglia siano esenti da pecche: spesso il paziente viene ricoverato senza una relazione del suo curante. Insomma: bisogna parlarsi, tra medici.
Maurizio Imperiali
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