14 marzo 2008
Aggiornamenti e focus
Parola d'ordine: intervenire
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Si direbbe quasi un obbligo prestare cure, procedere a interventi chirurgici di angioplastica, bypass, di impianto di defibrillatori, per salvare la vita a persone, magari in là con gli anni, che si presentano al medico con una patologia cardiovascolare. L'innovazione e i progressi della medicina hanno rinforzato l'abitudine mentale all'idea che, a parte per alcune condizioni particolarmente gravi per loro natura, esiste sempre la possibilità di intervenire per salvare una vita, o meglio prolungarla. Questa tendenza genera aspettative nei pazienti e nei loro familiari e difficoltà per il medico che propone l'opzione, di gestire un eventuale fallimento, le conseguenze, e magari anche il decesso. Nonché la difficoltà di prendere in considerazione l'opzione di non intervenire.
Secondo un commento comparso su Plos Medicine a un'indagine fatta tra medici, pazienti e familiari sull'argomento, ci sono stati negli anni dei cambiamenti profondi nella percezione delle possibilità di azione in cardiologia. In primo luogo il trattamenti cardiaci da invasivi e altamente rischiosi vengono ora avvertiti sempre più come procedure standard di routine, meno invasivi, più sicuri e anche frequentemente adottati nei pazienti anziani per migliorare lo stato di salute e la longevità. Ma è cambiato anche il concetto di anzianità, non visto più come capolinea della vita accompagnato da un inevitabile declino, ma come una fase in cui mortalità e morbidità vanno prevenute. Infine, in particolare, negli Stati Uniti, la gestione della sanità costringe a strutturare le scelte mediche in base al rimborso delle procedure effettuate. A questo si aggiungono la fiducia e speranza generate anche da una sorta di escalation delle possibilità terapeutiche e di poter fare comunque qualcosa in più con un passo successivo. I medici americani interpellati hanno, infatti, dichiarato di aver più volte avuto la sensazione di obbligo a intervenire e avvertono la necessità di considerare l'appropriatezza etica di un grande sforzo per raggiungere l'obiettivo, di domandarsi quale sia l'obiettivo, l'esito a cui mirare. Un chirurgo cardiovascolare, per esempio, si chiedeva se un prolungamento significativo della vita possa essere raggiunto sottoponendo i pazienti allo stress di una tabella di marcia dettata dalle procedure, fatta di catetarizzazione, sala operatoria, terapia intensiva, ricoveri. Infatti, non potendo prevedere più di tanto il decorso del paziente a lungo termine, il medico finisce per decidere solo in base all'eleggibilità contingente del paziente alla procedura. Per altro, sapendo benissimo che qualsiasi dubbio vanno a esprimere temono, o rischiano, che il paziente si senta soppesato in base a preferenze di trattamento del medico che in quel momento sta dando indicazioni.
Dall'altra sponda, quella dei pazienti e familiari, il desiderio di ottimizzare qualità della vita e longevità è estremo, al punto che difficilmente ricordano gli aspetti negativi dell'opzione e affermano che non gli è mai stata offerta l'ipotesi di non-trattamento. In più nel momento in cui questa opzione non viene presentata danno per scontato che il medico confidi in un esito positivo e che non intervenire sia fuori discussione. D'altronde se l'alternativa nella scelta è il non vivere, la scelta forse non è più tale. In questo contesto emotivo la cosa più normale è che, se la terapia non ottiene i risultati, il paziente sia scioccato e demoralizzato. Tutte questo accade secondo gli autori del commento alle interviste, perchè questioni come la morte, la qualità della vita e i limiti del trattamento non vengono affrontate in modo esaustivo nelle conversazioni sulle procedure cardiache, tra medico e paziente e questo genera equivoci e speranze. Tali argomenti andrebbero esplicitati maggiormente o del tutto e il medico dovrebbe inserire la possibilità di non intervenire, esclusivamente con lo scopo di allungare la vita, tra le possibili opzioni ed entrare nel merito anche del controllo dei sintomi e di contenimento del disagio.
Simona Zazzetta
Salute oggi:
...e inoltre su Dica33:
Medici in difficoltà
Secondo un commento comparso su Plos Medicine a un'indagine fatta tra medici, pazienti e familiari sull'argomento, ci sono stati negli anni dei cambiamenti profondi nella percezione delle possibilità di azione in cardiologia. In primo luogo il trattamenti cardiaci da invasivi e altamente rischiosi vengono ora avvertiti sempre più come procedure standard di routine, meno invasivi, più sicuri e anche frequentemente adottati nei pazienti anziani per migliorare lo stato di salute e la longevità. Ma è cambiato anche il concetto di anzianità, non visto più come capolinea della vita accompagnato da un inevitabile declino, ma come una fase in cui mortalità e morbidità vanno prevenute. Infine, in particolare, negli Stati Uniti, la gestione della sanità costringe a strutturare le scelte mediche in base al rimborso delle procedure effettuate. A questo si aggiungono la fiducia e speranza generate anche da una sorta di escalation delle possibilità terapeutiche e di poter fare comunque qualcosa in più con un passo successivo. I medici americani interpellati hanno, infatti, dichiarato di aver più volte avuto la sensazione di obbligo a intervenire e avvertono la necessità di considerare l'appropriatezza etica di un grande sforzo per raggiungere l'obiettivo, di domandarsi quale sia l'obiettivo, l'esito a cui mirare. Un chirurgo cardiovascolare, per esempio, si chiedeva se un prolungamento significativo della vita possa essere raggiunto sottoponendo i pazienti allo stress di una tabella di marcia dettata dalle procedure, fatta di catetarizzazione, sala operatoria, terapia intensiva, ricoveri. Infatti, non potendo prevedere più di tanto il decorso del paziente a lungo termine, il medico finisce per decidere solo in base all'eleggibilità contingente del paziente alla procedura. Per altro, sapendo benissimo che qualsiasi dubbio vanno a esprimere temono, o rischiano, che il paziente si senta soppesato in base a preferenze di trattamento del medico che in quel momento sta dando indicazioni.
Nei panni di un paziente
Dall'altra sponda, quella dei pazienti e familiari, il desiderio di ottimizzare qualità della vita e longevità è estremo, al punto che difficilmente ricordano gli aspetti negativi dell'opzione e affermano che non gli è mai stata offerta l'ipotesi di non-trattamento. In più nel momento in cui questa opzione non viene presentata danno per scontato che il medico confidi in un esito positivo e che non intervenire sia fuori discussione. D'altronde se l'alternativa nella scelta è il non vivere, la scelta forse non è più tale. In questo contesto emotivo la cosa più normale è che, se la terapia non ottiene i risultati, il paziente sia scioccato e demoralizzato. Tutte questo accade secondo gli autori del commento alle interviste, perchè questioni come la morte, la qualità della vita e i limiti del trattamento non vengono affrontate in modo esaustivo nelle conversazioni sulle procedure cardiache, tra medico e paziente e questo genera equivoci e speranze. Tali argomenti andrebbero esplicitati maggiormente o del tutto e il medico dovrebbe inserire la possibilità di non intervenire, esclusivamente con lo scopo di allungare la vita, tra le possibili opzioni ed entrare nel merito anche del controllo dei sintomi e di contenimento del disagio.
Simona Zazzetta
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