Contaminazioni pericolose

12 gennaio 2007
Aggiornamenti e focus

Contaminazioni pericolose



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Gli ospedali sono luoghi di cura e perciò è assurdo che proprio lì ci si ammali d'infezione. Sembra logico e molta gente lo pensa, ma come tutte le eccessive semplificazioni non lo è: certo l'igiene dovrebbe essere garantita al massimo e la cronaca indica che spesso non succede, in ogni ambiente però (tranne quelli sterili) ci sono germi e il rischio infettivo si può abbassare ma non azzerare, tanto più in sistemi complessi e in presenza di malati come negli ospedali. A parte situazioni di macroscopica trascuratezza igienica, ci sono molti fattori che influiscono sulle probabilità di contagio nosocomiale, legati agli ambienti, agli operatori e ai pazienti. Uno studio statunitense punta l'indice sulla possibilità di contrarre due infezioni oggi particolarmente temute per la crescente diffusione e per la gravità, quelle da Stafilococco aureo meticillino-resistente (MRSA) e da Enterococchi vancomicina-resistenti (VRE), in reparti ospedalieri esposti anche più degli altri al problema quali le unità di terapia intensiva (UTI). Nei malati affetti da questi ceppi batterici, che sono resistenti agli antibiotici, c'è un alto rischio di sviluppare una patologia invasiva (causano infatti una consistente morbilità e mortalità intraospedaliera): chi viene ricoverato, soprattutto nel caso delle UTI, potrebbe contrarli per la contaminazione ambientale da MRSA o VRE incubati da pazienti precedenti.

Germi diffusi


I batteri possono permanere su svariati oggetti presenti, da pavimenti, letti, vestiti, maniglie a strumenti come quelli per misurare la pressione o i computer, anche dopo le operazioni di pulizia; nelle UTI il contagio da fonti materiali può essere maggiore per via delle comorbilità dei malati e dell'intensività delle cure. Il rischio d'infettarsi dipende dal fatto che la contaminazione superi la soglia per la trasmissione e che si disinfetti al di sotto di questa soglia. Nelle UTI il contagio potrebbe comunque legarsi più direttamente ai precedenti ricoverati che alle peculiarità dell'ambiente. Gli autori hanno condotto un'analisi retrospettiva su circa 10 mila pazienti di otto UTI americane. E' risultato che tra i ricoverati in unità i cui precedenti ospiti erano MRSA-positivi il rischio di contrarre la stessa infezione era pari al 3.9%, in confronto al 2,9% nel caso di MRSA-negativi; similmente il rischio corrispondeva al 4,5% relativamente alla VRE-positività rispetto al 2,8% della VRE-negatività. L'eccesso di rischio dava ragione del 5% di tutti i casi incidenti di infezione da MRSA nel periodo dello studio (venti mesi), o di un caso su 94 degenti esposti, e del 6,8% di quelli di VRE, o un caso su 59. Infine la probabilità di contagio è apparsa associata significativamente alla durata della degenza ospedaliera (valutata prima, durante e dopo la terapia intensiva).

Il tempo di degenza


La precedente presenza di malati con MRSA o VRE ha esposto dunque a un rischio elevato di contrarre la stessa infezione, anche se questa via di trasmissione ha contribuito in misura minore al contagio complessivo; da quest'analisi non si può però sapere l'effetto della disinfezione nel ridurre tale rischio e quest'aspetto va ulteriormente indagato. Inoltre, vanno valutati altri aspetti relativi al periodo della degenza: infatti, tra chi ha contratto le infezioni era maggiore rispetto a quelli rimasti negativi la permanenza non solo nella UTI e post-UTI, ma anche quella pre-UTI: questo potrebbe indicare che i malati che vengono colpiti da MRSA o VRE abbiano caratteristiche specifiche che li predispongono a degenze più prolungate. Insomma il rischio da contaminazione ambientale c'è, ma ci sono anche aspetti ancora da studiare.

Viviana Zanardi



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