Una mappa per spegnere il dolore

09 aprile 2009
Aggiornamenti e focus

Una mappa per spegnere il dolore



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Mettersi nei panni di chi soffre, non è solo un modo di dire, ma ciò che letteralmente è stato fatto per realizzare un'indagine che ha mappato le strutture che in Italia si occupano di terapia del dolore. Gli operatori coinvolti nel lavoro, hanno, infatti, contattato direttamente i centralini di tutte le Aziende ospedaliere pubbliche e private convenzionate con il Servizio sanitario nazionale, in cui è presente una struttura che si occupi di terapia del dolore, come normali cittadini in cerca di informazioni e chiarimenti. L'iniziativa, presentata in un tour che toccherà molte città italiane, è stata promossa dall'Associazione NOPAIN, che da alcuni anni si adopera per creare e diffondere una cultura sulla terapia del dolore, ancora poco articolata e disomogenea sul territorio italiano.

Non sono cure palliative


"In genere si considera il dolore come sintomo di una malattia - spiega Paolo Notaro, presidente di NOPAIN - ma il dolore cronico è una sindrome vera e propria, che colpisce il 20-25% della popolazione italiana, e il 55% nella fascia di età oltre i 65 anni. A volte la malattia sottostante passa, ma il dolore resta, e resta senza una diagnosi". Sul tema, in effetti, esiste una confusione culturale di fondo, innanzitutto sulla definizione e organizzazione delle strutture che erogano terapie del dolore troppo spesso associate alla gestione di malati terminali o non guaribili. Inoltre, si associa la prescrizione di farmaci analgesici maggiori (morfina, fentanyl, buprenorfina) a un ambito specialistico o di cure palliative quando invece, come sostiene Notaro, ogni medico dovrebbe avere la possibilità di prescriverli. "Ancora oggi - spiega Roberto Carlo Rossi, vicepresidente dell'Ordine dei Medici e Odontoiatri di Milano - quando un paziente riceve la prescrizione di un oppiaceo pensa di essere affetto da un male incurabile". La distinzione tra terapia del dolore e cure palliative è invece fondamentale, queste ultime sono un paradigma di assistenza molto complesso di pazienti che hanno esigenze ben diverse da chi invece ha la possibilità di avere una vita normale, resa impossibile da un dolore costante, a volte senza nemmeno una diagnosi esatta. Questa confusione non è solo formale, ma rispecchia una dimensione organizzativa inadeguata su tutto il territorio italiano, rilevata dall'indagine, pubblicata in un libro bianco dal titolo "Dolore cronico, dolore inutile".

Troppo poche e poco organizzate


Nell'indagine, sono state identificate 184 strutture che si occupano di terapia del dolore, distribuite in 20 regioni e le domande sono state poste agli operatori dei centralini generali, seguendo un questionario con domande a risposta chiusa, semplice o multipla, per acquisire informazioni sulla struttura di terapia del dolore dell'ospedale. Il dato su scala nazionale indica che su 1570 strutture di ricovero, solo 184 (11,7%) comprendono una struttura di terapia del dolore, vale a dire 0,66 strutture per 250 mila residenti. Delle 158 strutture complessivamente analizzate, 53 sono di III livello (il più avanzato), ma di queste solo 10 raggiungono un punteggio massimo secondo standard di classificazione, 35 di II livello e 70 di I livello, il più elementare. Inoltre, è stata riscontrata disomogeneità nella denominazione: si parla di terapia del dolore, terapia antalgica, cure palliative, medicina del dolore, algologia, medicina del benessere. In alcuni centri non viene nemmeno data una denominazione e le prestazioni algologiche sono legate alla funzione di consulenza di singoli specialisti. "Non c'è una terminologia unica - commenta Notaro - e questo rende l'orientamento difficile perché l'utente non sa a chi deve rivolgersi". Inoltre, esiste anche una difficoltà di accesso misurabile nel tempo speso per recuperare il numero di telefono e il sito web, operazioni non semplici già nelle regioni più organizzate. Infine, nonostante il recente snellimento legislativo, le prescrizioni restano poco agevoli: "Le complesse modalità prescrittive, ancora oggi vigenti nel nostro ordinamento - conclude Rossi - non fanno che rafforzare questa convinzione e questa cultura distorta. Trattare questi pazienti si può e si deve e va formata una nuova generazione di professionisti in grado di portare queste cure sul territorio e di farle diventare sempre più armamentario terapeutico comune nell'arsenale clinico di ogni medico".

Simona Zazzetta



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