21 luglio 2010
Aggiornamenti e focus
Italiani all’estero per un figlio
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È l'Italia il paese d'origine della percentuale più alta di coppie che emigrano per avere un figlio in provetta. Così almeno dice uno studio condotto dall'Eshre, la Società europea di riproduzione umana ed embriologia, impegnata nelle settimane scorse a Roma per il suo 26° meeting annuale. La ricerca è stata effettuata attraverso un questionario distribuito in 44 centri per la riproduzione assistita di sei paesi europei (Spagna, Svizzera, Belgio, Slovenia, Repubblica Ceca e Danimarca), meta preferita da chi ha problemi riproduttivi: delle 1.230 coppie intervistate, la nazionalità maggiormente rappresentata era quella italiana, con una prevalenza del 32%. Considerato che i centri coinvolti nello studio rappresentano circa il 50% delle strutture alle quali si rivolgono le coppie straniere, la migrazione per problemi riproduttivi coinvolge ogni anno in tutta Europa tra le 11.000 e le 14.000 coppie. «Per quanto concerne l'Italia» aggiunge Anna Pia Ferretti, la rappresentante italiana della task force di studiosi istituita dall'Eshre per studiare il fenomeno della migrazione per necessità riproduttive «possiamo stimare in circa 10.000 i cicli che le coppie italiane eseguono all'estero ogni anno».
Lo studio, condotto prima della sentenza con cui nel 2009 la Corte costituzionale ha rimosso molti dei paletti che limitavano il ricorso alle tecniche di Procreazione medicalmente assistita (Pma), dimostra che solo nel 40% dei casi le coppie italiane vanno all'estero per sottoporsi a trattamenti illegali in Italia (donazione di gameti e embrioni). Le altre si rivolgono a centri stranieri perché ritengono che la terapia, per quanto lecita anche nel nostro paese, sia più efficace, laddove sono in vigore normative più liberali. «I dati raccolti» è la conclusione di Anna Pia Ferretti «mostrano che le coppie italiane non vanno all'estero per effettuare trattamenti "estremi", ma solo per cercare di avere un figlio all'interno di una coppia stabile, eterosessuale e in normale età riproduttiva».
Freni legislativi a parte, la scelta di rivolgersi alla Pma dipende anche da fattori culturali e sociali. Lo conferma l'indagine "Starting families" (mettere insieme una famiglia), condotta su un campione di diecimila tra uomini e donne di diciotto paesi con l'obiettivo di fare luce sui processi decisionali che si sviluppano nelle coppie con difficoltà di concepimento. Sviluppata con la collaborazione con dell'Università di Cardiff e il sostegno dell'Economic and Social Support for Fertility britannico e dell'International Consumer Support for Fertility, la ricerca rivela innanzitutto la scarsa conoscenza dei parametri e dei fattori di rischio della fertilità: meno della metà degli intervistati sa che una coppia viene definita ''infertile'' dopo 12 mesi di tentativi, che si riducono a 6 mesi per gli over35. Inoltre, circa la metà del campione ritiene erroneamente che le donne a 40 anni abbiano le stesse possibilità di rimanere incinte delle donne di 30 anni. Infine, è maggiore la conoscenza dei trattamenti più complessi come la fecondazione in vitro (Ivf) piuttosto che le cure per stimolare l'ovulazione. «L'indagine fornisce un quadro prezioso a sostegno di politiche dirette a informare e orientare» ha concluso Jacky Boivin, della Cardiff School of Psychology dell'Università di Cardiff.
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Lo studio, condotto prima della sentenza con cui nel 2009 la Corte costituzionale ha rimosso molti dei paletti che limitavano il ricorso alle tecniche di Procreazione medicalmente assistita (Pma), dimostra che solo nel 40% dei casi le coppie italiane vanno all'estero per sottoporsi a trattamenti illegali in Italia (donazione di gameti e embrioni). Le altre si rivolgono a centri stranieri perché ritengono che la terapia, per quanto lecita anche nel nostro paese, sia più efficace, laddove sono in vigore normative più liberali. «I dati raccolti» è la conclusione di Anna Pia Ferretti «mostrano che le coppie italiane non vanno all'estero per effettuare trattamenti "estremi", ma solo per cercare di avere un figlio all'interno di una coppia stabile, eterosessuale e in normale età riproduttiva».
Freni legislativi a parte, la scelta di rivolgersi alla Pma dipende anche da fattori culturali e sociali. Lo conferma l'indagine "Starting families" (mettere insieme una famiglia), condotta su un campione di diecimila tra uomini e donne di diciotto paesi con l'obiettivo di fare luce sui processi decisionali che si sviluppano nelle coppie con difficoltà di concepimento. Sviluppata con la collaborazione con dell'Università di Cardiff e il sostegno dell'Economic and Social Support for Fertility britannico e dell'International Consumer Support for Fertility, la ricerca rivela innanzitutto la scarsa conoscenza dei parametri e dei fattori di rischio della fertilità: meno della metà degli intervistati sa che una coppia viene definita ''infertile'' dopo 12 mesi di tentativi, che si riducono a 6 mesi per gli over35. Inoltre, circa la metà del campione ritiene erroneamente che le donne a 40 anni abbiano le stesse possibilità di rimanere incinte delle donne di 30 anni. Infine, è maggiore la conoscenza dei trattamenti più complessi come la fecondazione in vitro (Ivf) piuttosto che le cure per stimolare l'ovulazione. «L'indagine fornisce un quadro prezioso a sostegno di politiche dirette a informare e orientare» ha concluso Jacky Boivin, della Cardiff School of Psychology dell'Università di Cardiff.
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