06 febbraio 2013
Aggiornamenti e focus
Più attività fisica contro la sindrome da stanchezza cronica
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La componente psicologica gioca un ruolo fondamentale nella sindrome da stanchezza cronica (Ssc), anche nel caso in cui il reumatologo ipotizzi un'origine organica. Per questo il sistema sanitario britannico ha sponsorizzato uno studio comparativo tra diverse tipologie di psicoterapia utilizzate in chiave riabilitativa, che oltre a terapia cognitivo-comportamentale, terapia medica, includessero anche un programma di attività fisica.
Lo studio è stato condotto in collaborazione dal King's College di Londra, dall'Università di Londra e dal Medical research council britannico ed è stato pubblicato su Psychological medicine. Un campione di 640 pazienti della stessa fascia di età, con sintomi sufficientemente intensi da consentire la diagnosi di Ssc è stata suddivisa in quattro gruppi con quattro trattamenti diversi: terapia medica specialistica (senza supporto psicologico), terapia medica più terapia cognitivo-comportamentale (Tcc), terapia medica più un programma di attività fisica di intensità crescente (Afc) e, infine, terapia medica più una psicoterapia specifica per la Ssc, messa a punto da un gruppo di medici britannici e chiamata adaptive pacing therapy o Apt.
«L'Apt è una forma di terapia cognitivo-comportamentale che consente però al paziente con stanchezza cronica di interrompere l'attività prevista se la trova troppo pensante» spiega Peter White, docente di psicologia medica e principale autore della sperimentazione. «Precedenti studi hanno dimostrato che sia la Tcc sia l'Afc riducono i sintomi e la disabilità. Volevamo capire se anche la sola terapia medica funziona, oppure se una terapia meno impegnativa e più a misura di paziente rispetto alla cognitivo-comportamentale può avere un buon effetto riabilitativo». I risultati sono chiari: dopo un anno di terapia, coloro che sono stati sottoposti a Tcc o alla sola attività fisica rispondono ai criteri perla remissione tre volte più di coloro che hanno seguito la sola terapia medica o l'hanno associata con l'Apt. In assoluto, circa il 22% dei pazienti trattati con la terapia cognitivo-comportamentale o col programma di attività fisica ha visto la malattia regredire fino a scomparire, mentre questo accade solo nell'8% dei soggetti trattati con terapia medica più Apt e nel 7% di coloro che si limitano ad assumere farmaci. «I risultati ci dicono che c'è la possibilità di guarire, ma che questa riguarda solo una piccola percentuale di pazienti, non più di due su dieci con la terapia migliore» conclude White. «Dobbiamo ora capire perché ciò accade e se dobbiamo ridefinire i nostri criteri diagnostici a monte dell'intervento terapeutico».
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